BANCHE
SOMMARIO:
Extra fido e licenziamento per giusta causa:
Cass. 24.11.1998-27.3.1999
Tribunale
di Palermo, 18.11.1999-13-6-2000, Giudice unico del lavoro Dott. Rizzo, Di Mitri
Marco (Avv. G. e M.L. Musacchia) c. Banca di Palermo S.p.a. (Avv. T. Fortuna).
LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA
DELL’IMPRESA BANCARIA, CESSIONE DELLE ATTIVITA’ E PASSIVITA’ E DIRITTI DEI
LAVORATORI.
Sommario:
1.- Il quadro normativo. 2.- Ambito di applicabilità dell’art. 47 l. n.
428/1990. 3.- La liquidazione coatta ed i suoi effetti sull’azienda ed i
lavoratori. 4. - Cessione delle attività e passività ed applicabilità
dell’art. 2112 cod.civ. 5. -
Liquidazione coatta amministrativa dell’impresa bancaria e licenziamento. 6.
Impugnazione del licenziamento e giudice competente.
1. Il quadro normativo.
- Le presenti riflessioni nascono dal desiderio di fornire un contributo in
ordine ai possibili esiti del contenzioso promosso dai dipendenti dell’azienda
bancaria in crisi, assunti, una volta spirata la liquidazione ed intervenuta la
cessione delle attività e delle passività, dal nuovo acquirente.
Le
vicende conflittuali che ne scaturiscono hanno, com’è intuibile, per oggetto
la rivendicazione di condizioni di lavoro connesse alla posizione acquisita alle
dipendenze del cedente, fondata sulla
presunta e generalizzata applicabilità dell’art. 2112 c.c.[1].
Tale
convincimento è avvalorato dal fatto che la cassazione, difettando nel nostro
ordinamento, vuoi una nozione di “azienda”,
che di “trasferimento”[2],
riconduce nel campo di applicazione di tale norma la traslazione, quando,
indipendentemente dal mezzo giuridico usato, essa abbia per oggetto un’universitas
rerum costituente il complesso dei beni organizzati per l’esercizio
dell’impresa, comprendente: cose corporali (merci, mobili, arredi, immobili),
cose immateriali (avviamento commerciale, concessione, marchi, brevetti, etc.),
titoli sull’utilizzazione dei locali occupati, rapporti giuridici di lavoro
con il personale, debiti e crediti con la clientela; elementi tutti questi
unificati in senso funzionale dalla volontà del titolare e, cioè, dalla
destinazione ad un fine comune[3].
Pertanto,
contrariamente a quanto comunemente si ritiene, la fattispecie della mera
continuazione delle prestazioni lavorative, prima alle dipendenze di una
determinata impresa e successivamente di un’altra, ancorché svolte nei
medesimi locali, non integra di per sé e tout
court un trapasso d’azienda, ben potendo rappresentare una semplice
successione cronologica di rapporti di lavoro[4].
Parimenti
privo di rilevanza, a tal fine, deve ritenersi il semplice collegamento
fra l’impresa cedente e la cessionaria che, in quanto fenomeno meramente
economico, non è di per sé indicativo dei rapporti in successione, non
comportando il venir meno della sostanziale autonomia e della distinta
oggettività dei diversi datori di lavoro[5].
Ne
consegue che il giudice del merito, di fronte alla pretesa di cui ci occupiamo,
dovrà verificare, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, se
congruamente motivato, l’effettiva intenzione dei contraenti, allo scopo di
stabilire se i beni ceduti siano stati considerati nella loro autonomia unitaria
e strumentale, o in modo da comportare l’alienazione dell’azienda cui erano
collegati[6].
Sul
piano applicativo, pertanto, l’art. 2112 cod. civ. finisce con l’interagire
vuoi con la novella del suo testo, operata con l’art. 47 della l. 29 dicembre
1990, n. 428, al fine di adeguare la nostra normativa alla direttiva comunitaria
n.77/187, vuoi con il T.U. 1.9.1993 n. 385, come rivisitato dal D. lgs.
n.342/1999 sulla liquidazione coatta amministrativa dell’azienda bancaria, che
con la rappresentazione, parimenti ampia del concetto di trasferimento[7],
che si rinviene nella normativa comunitaria e che influisce sulla nostra
giurisprudenza.
Sotto
questo profilo, va ricordato che la Direttiva comunitaria (Direttiva del
Consiglio 14.2.1977, 77/187/CEE), in materia di trasferimento d’impresa, di
stabilimenti, o di parti di essi, in seguito a cessione contrattuale o fusione,
dà rilievo più che all’impresa,
all’attività dalla stessa svolta.
Riassuntivamente,
i giudici lussemburghesi riconducono, nell’ambito di applicazione della norma,
i casi di trasferimento in cui ricorrono i seguenti presupposti:
a)
mutamento della persona del responsabile della gestione dell’impresa,
che assuma gli obblighi del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, senza
richiedersi un accertamento, in ordine al trasferimento, della proprietà della
stessa;
b)
l’entità economica trasferita continui ad esistere ed a
conservare la propria identità, con gestione da parte del nuovo titolare
delle medesime attività economiche o analoghe, condotte dal precedente;
c)
non ci si trovi in presenza di una pura e semplice alienazione di
elementi attivi di un’azienda;
d)
il cambiamento del responsabile della gestione abbia origine da una
cessione contrattuale o da una fusione, con esclusione di quei trasferimenti
derivanti dalla legge o da atto unilaterale.
A
riguardo deve osservarsi che non tutte le procedure concorsuali vengono escluse
dall’applicazione della normativa di cui agli artt. 2112 cod. civ. e 47 legge
428/1990, essendo necessario constatare, caso per caso, se il decreto che
sancisce l’applicazione del procedimento amministrativo straordinario,
stabilisca, nel contempo, la continuazione dell’attività d’impresa in
regime commissariale, ovvero, se questo disponga per l’attuazione di una
procedura di liquidazione.
Nel
primo caso, si applicherà la disciplina generale prevista nella direttiva,
poiché il provvedimento ha natura conservativa, essendo stata
stimata la possibilità di restituire un futuro ad una determinata
impresa; nell’altra ipotesi, relativamente ad un provvedimento di natura
liquidatoria, si potrà far valere la deroga espressamente prevista dalla stessa
direttiva[8].
In
via di estrema sintesi, nel contenzioso di cui ci occupiamo, il convincimento
sul diritto al mantenimento dei diritti maturati alle dipendenze del precedente
datore di lavoro, viene avvalorato dal principio secondo cui, tra le varie
interpretazioni del diritto interno, l’interprete è tenuto a scegliere quella
più conforme alle direttive
comunitarie[9], ritenendosi la mera similarità
dell’attività economia trasferita, idonea a dar corpo al trasferimento
dell’azienda, nel quadro della tendenza, sempre più diffusa, a mantenere
il livello occupazionale e ad assicurare ai lavoratori la integrità e la
certezza della fonte di guadagno.
Tuttavia,
come vedremo nel corso di questa breve nota,
la cessione delle attività e delle passività, disposta a conclusione della
procedura di liquidazione coatta amministrativa dell’impresa bancaria, e
l’assunzione dei lavoratori della stessa da parte dell’acquirente, pur
guardata alla luce dei valori espressi dai principi sovranazionali[10],
non osta ad una rideterminazione del trattamento che gli stessi godevano alle
dipendenze del cedente.
2.
Ambito di applicabilità dell’art. 47 l. n. 428/1990. -
Il tema, com’è
evidente, è meritevole di interesse offrendo l’occasione per riflettere, sul
piano dei principi, sugli ambiti di comunicazione tra la normativa interna e
quella comunitaria e,
su quello applicativo, sull’azionabilità di una pretesa alla continuazione
del rapporto di lavoro ed alla conservazione del trattamento giuridico ed
economico goduto presso l’azienda di provenienza.
Ad
una prima lettura del quinto comma
dell’art. 47 L. 428/1990, sembrerebbe che la disapplicazione delle garanzie
postulate dall’art. 2112 cod.civ., testo novellato, possa avere luogo nel caso
in cui il trasferimento concerna aziende od unità produttive delle quali il
C.I.P.I. abbia accertato lo stato di crisi, o imprese nei confronti delle quali
vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo,
emanazione di un provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, ovvero
di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, a condizione:
a) che non vi sia continuazione dell'attività
produttiva;
b)
che, in sede di consultazione sindacale, sia stato raggiunto l’accordo[11],
cui accenna il quinto comma, indipendentemente dall’appartenenza o meno dei
lavoratori al sindacato stipulante o dalla loro adesione all'accordo stesso[12].
In
altre parole, per escludere l’effetto della conservazione dei rapporti di
lavoro, non sarebbe sufficiente la sola cessazione dell’attività produttiva
decisa dal liquidatore, ma necessari, pur sempre, una preventiva consultazione
ed un successivo accordo sulla sorte
del personale esuberante[13].
Per
verificare il grado di resistenza di tale tesi, occorre ricordare che la
formulazione della nostra norma, nelle intenzioni del legislatore italiano,
traeva la sua ratio dalla volontà di assolvere ad una funzione armonizzatrice tra
l'ordinamento interno e quello comunitario, quale risulta espresso nella
Direttiva 77/187, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli stati
membri, relative al mantenimento in servizio dei lavoratori, in caso di
trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di essi “in
seguito a cessione contrattuale o a fusione”[14].
Ad
una prima lettura, sembrerebbe che la norma comunitaria precluda, in linea di
principio, al nuovo acquirente di sottrarre
i diritti derivanti dal rapporto svoltosi alle dipendenze dell’alienante,
avendola la Corte di Giustizia ritenuta applicabile “anche
al trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi,
si sensi della legge 12.8.1977 n. 675” [15].
A
ben vedere, però, l’ipotesi della crisi
va distinta da quella in cui l’oggetto del negozio traslativo sia una delle
quattro procedure concorsuali prese in considerazione dal legislatore:
fallimento, concordato preventivo con cessione dei beni, liquidazione coatta
amministrativa o amministrazione straordinaria.
Diversamente
dal caso delle aziende in crisi, va rilevato che la Corte ha consentito alla
disciplina interna di derogare all’art. 2112 cod. civ., quando oggetto del
trasferimento siano aziende assoggettate a procedura concorsuale[16],
vuoi in considerazione del fatto che nella Direttiva n.77/187 difetta una
disposizione espressa riguardante il fallimento (punto 17 della motivazione),
vuoi della garanzia offerta dal penetrante controllo giudiziario che accompagna
l’intero procedimento[17].
Tale
conclusione trova conferma nella successiva direttiva 29 giugno 1998 n. 98/50
nella quale si considera (n. 8 del preambolo) che deroghe al mantenimento dei
diritti dei lavoratori, nel caso di trasferimento dell'azienda, «dovrebbero
essere permesse per uno Stato membro che disponga di procedure speciali per
promuovere la sopravvivenza di società di cui si dichiara che sono situazioni
di crisi economica».
In
buona sostanza, l’ipotesi delle aziende assoggettate a procedura concorsuale
va distinta, sia da quella delle aziende in crisi, che da quelle poste in
amministrazione straordinaria.
Per
queste ultime, i giudici del Lussemburgo[18] hanno ritenuto
applicabile la direttiva 77/187 alle unità produttive assoggettate a tale
procedimento, solo quando il decreto che dispone l’amministrazione
straordinaria preveda la continuazione dell’attività d’impresa.
Qualora,
invece, tale prosecuzione non sia stata disposta, non v’è spazio per
l’applicazione della direttiva, risultando il procedimento di amministrazione
straordinaria finalizzato, non a finalità
conservative del patrimonio aziendale, ma soltanto alla sola liquidazione dei
beni del debitore.
In
buona sostanza, oltre che dal tenore lessicale del quinto comma dell’art. 47
della legge 427/1990, anche dalle indicazioni desumibili dalla disciplina
comunitaria, sembra possibile trarre la conclusione che delle procedure
concorsuali prese in considerazione, solo quella dell’amministrazione
straordinaria, avente finalità conservative del patrimonio, rimanga
assoggettata alla disciplina concernente la consultazione sindacale.
Se
così è, una lettura (iper)garantista
della norma, tesa ad escludere la cesura tra il rapporto di lavoro svoltosi alle
dipendenze dell’impresa bancaria, posta in liquidazione coatta, e quello
instauratosi alle dipendenze della nuova azienda, che ne ha rilevato le attività
e le passività, come vedremo infra,
andrebbe ben oltre le indicazioni
fornite dalla Corte comunitaria, introducendo nel nostro ordinamento un
trattamento di miglior favore che non trova riscontro presso gli altri partners europei[19].
Ed,
infatti, la locuzione “…nel caso in
cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata e nel
corso della consultazione… sia stato raggiunto un accordo sindacale…”
non può riferirsi alle ipotesi delle “…aziende
o unità produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato di crisi
aziendale….o imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di
fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei
beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa” ma
all’ultimo elemento della sequenza “ovvero
di sottoposizione all’amministrazione straordinaria”, avendo la
congiunzione “ovvero” la funzione
di spezzarla, con riferimento alle procedure concorsuali, separate l’una
dall’altra dalla sola virgola, ad eccezione, appunto, dell’amministrazione
straordinaria.[20]
Tra
l’altro, in siffatte ipotesi, difettando un soggetto che possa disporre la
prosecuzione dell’attività, possibile solo in tale ultimo caso, renderebbe
priva di senso l’imposizione, a carico del commissario liquidatore,
dell’esperimento di una procedura che si rivelerebbe del tutto inutile sul
piano dei risultati.
Esperimento
che, si è rilevato, potrebbe addirittura compromettere il buon esito del
concordato, accreditatosi sulla base di una valutazione statica della situazione
aziendale e della sua appetibilità
solo dopo la cessazione di ogni attività[21].
Né,
per pervenire a contrario avviso, si potrebbe opporre che una conclusione così
troncante sarebbe preclusa dal dettato dell’art. 3 legge 223/1991.
Si
è, infatti, rilevato[22]
come la previsione secondo cui, nell’ipotesi di cessazione dell’attività
produttiva, ove non venga disposta la liquidazione, il curatore, previa domanda
al ministro, possa ottenere il trattamento straordinario di integrazione
salariale, per un periodo non superiore a dodici mesi, non sia non un obbligo,
ma una soluzione che nella pratica viene adottata per evitare possibili azioni
risarcitorie, pro bono pacis e per non
alimentare il conflitto sociale.
Da
una lettura attenta della norma, infatti, si evince che se il beneficio in
questione è concesso a domanda del
curatore, il quale ne può richiedere la concessione anche per un periodo
inferiore all’anno, per la risoluzione dei rapporti di lavoro, non occorre
attendere la constatazione dell’esito negativo della proroga, prevista nel
secondo comma, o la fine dell’intervento straordinario di cui al primo comma.
Il
che equivale a riconoscere che, allorquando nelle procedure concorsuali
liquidatorie, la risoluzione dei rapporti interessi tutto il personale
dipendente e venga adottata contestualmente, l’imposizione di una procedura
fortemente articolata sarebbe priva di senso, ben potendo trovare applicazione
la risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo[23].
Diversamente
opinando, non v’è chi non vede come si accrediterebbe quell’assistenzialismo
deteriore, secondo cui si dovrebbe chiedere l’intervento anche quando in
partenza si è convinti dell’obiettiva impossibilità di conservazione del
complesso operativo[24].
3.
La liquidazione coatta ed i suoi effetti sull’azienda ed i lavoratori. – La
disciplina della
liquidazione coatta dell’impresa bancaria, a ben vedere, deve ritenersi,
comunque, sottratta ad un’applicazione generalizzata dell’art. 47 della l.
407/1990, vieppiù nell’ipotesi in cui il trasferimento avvenga mediante la
cessione delle attività e delle passività.
Nel
nostro specifico settore, infatti, tale istituto viene utilizzato come procedura
finalizzata non all’eliminazione, bensì al salvataggio dell’impresa in
difficoltà, caratterizzata dalla rilevanza che assumono le esigenze di tutela
del credito e dei risparmiatori, tale da identificarsi con l’interesse
pubblico[25],
che giustifica l’assunzione da parte dell’autorità amministrativa di un
provvedimento autorizzatorio della gestione commissariale[26].
Il
Ministro del Tesoro, secondo quanto previsto dall’art. 57 della legge
bancaria, su proposta della Banca d’Italia e sentito il Comitato
interministeriale per il credito ed il risparmio, nell’ipotesi di accertate e
gravi irregolarità dell’amministrazione degli enti creditizi, di violazioni
delle norme legali e statutarie, di infrazioni nelle disposizioni emanate dal
servizio di vigilanza oppure di gravi perdite di patrimonio, può sciogliere gli
organi amministrativi delle aziende di credito.
E’
importante rilevare subito come l’iniziativa competa alla Banca d’Italia e
la decisione degli organi da nominare (Commissario straordinario e comitato di
sorveglianza) spetti, rispettivamente, al Ministero del Tesoro ed al Governatore
della Banca d’Italia: indici questi di un procedimento minutamente
disciplinato e caratterizzato dal perseguimento di finalità pubblicistiche.
L’organo
principale dell’intera procedura è il Commissario straordinario con funzioni
in parte ispettive ed in parte amministrative, al quale sono attribuiti poteri
ampiamente discrezionali in ordine all’accertamento delle condizioni della
situazione patrimoniale
dell’impresa bancaria e la ricerca delle strategie con cui far fronte allo
stato di dissesto, ed estrema ratio la
richiesta alla Banca d’Italia della messa in stato di liquidazione coatta
amministrativa.
Secondo
quanto stabilito dagli artt. 67-86 bis della
legge bancaria, il provvedimento di liquidazione determina la revoca
dell’autorizzazione all’esercizio del credito, prevedendosi, solo in via
eccezionale, la possibilità di continuazione dell’attività bancaria
da parte del Commissario (art. 75 R.D.L.
n. 375/1936).
In
tal caso, il Tribunale, dopo aver sentito l’autorità di vigilanza, dichiara
lo stato di cessazione dei pagamenti e, quindi, l’insolvenza dell’ente
creditizio trasmettendo il provvedimento alla Banca d’Italia perché disponga
la liquidazione coatta (art. 195 della legge fallimentare e 69 legge bancaria).
Si
concentrano, quindi, nella Banca d’Italia, quale organo
di vigilanza, i poteri di impulso, indirizzo e controllo che,
nell’ordinaria procedura fallimentare, sono assegnati al giudice delegato o,
comunque, al tribunale [27].
Una
volta intervenuta la dichiarazione di fallimento o la sottoposizione
dell'impresa alla liquidazione coatta amministrativa e, previe le necessarie
autorizzazioni, il curatore o il commissario liquidatore possono continuare
l'esercizio dell'attività produttiva - allo scopo di pervenire, non tanto alla
liquidazione atomistica degli elementi patrimoniali attivi e passivi facenti
capo all'impresa insolvente, quanto alla cessione dell'intera azienda.
L'autorizzazione
della Banca d'Italia alla cessione delle attività e delle passività di
un'azienda di credito ad un'altra[28]
rappresenta l'ultimo atto del procedimento di liquidazione coatta amministrativa
degli enti creditizi ed è emesso in esplicazione dei poteri pubblicistici di
supremazia e di controllo sull'attività bancaria - rispetto ai quali sono
configurabili solo interessi legittimi, con la conseguenza che essa esplica i
propri effetti su un piano diverso da quello privatistico ove si svolge, una
volta autorizzata, l'attività negoziale di cessione[29].
4.
Cessione delle attività e passività ed applicabilità dell’art. 2112 cod.civ.
- Nell’ipotesi in cui il commissario liquidatore ceda le attività e le
passività dell’azienda decotta ponendo, su indicazione della Banca
d’Italia, quale condizione dell’accordo, l’assunzione dei dipendenti
presso l’impresa cessionaria, è verosimile che in questi ultimi si fondi il
convincimento di essere titolari di un diritto all’unicità del rapporto, in
ciò confortati dalla lettura (non a sufficienza meditata) delle decisioni della
giurisprudenza nazionale e comunitaria in tema di trasferimento di azienda.
Quel
che solitamente accade è che nel contenzioso giudiziale[30]
che ne segue, una tale pretesa viene supportata, oltre che con una tralaticia
allegazione di pronunciamenti giudiziari, con la sola produzione dell’atto di
cessione delle attività e passività, nel convincimento che da esso se ne possa
evincere un trasferimento d’azienda.
Una
tale impostazione difensiva deve ritenersi, a ben vedere, perdente in partenza.
Ed,
infatti, trattandosi di cessione attuata ai sensi degli art. 2556 e segg. c.c.,
come anticipato ad esordio del nostro discorso, occorre che venga fornita al
giudice[31]
la prova che un siffatto evento si sia verificato, non in astratto, ma in
concreto.
Nel
dettaglio, dovrà provarsi in giudizio la traslazione, secondo la definizione
datane dall'art. 2555 c.c., di tutto il complesso
dei beni che erano stati organizzati dall'imprenditore e che, per le loro
caratteristiche ed il loro collegamento funzionale, rendono possibile lo
svolgimento di quella particolare impresa[32],
ben potendo, diversamente, gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ancorchè
ceduti in blocco ad un unico soggetto (che acquista le attività e si accolla le
passività), essere considerati in senso atomistico, in quanto riferibili ad un
organismo ormai non più funzionante.
L'ipotesi
relativa alla cessione di tutte le attività e le passività della banca posta
in liquidazione coatta non può, pertanto, ritenersi tout
court indice della cessione dell’azienda nella
sua interezza[33], trattandosi di due
ipotesi del tutto distinte.
Risulta,
infatti, vuoi dall’art. 54, ultimo comma, del d.l. n. 375 del 1936, che
dall'art. 90, secondo comma, del d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385, come novellato
dal D.lgs. 342/199, che la legge ha conferito ai commissari, nell'attività di
liquidazione del patrimonio della banca, la possibilità di procedere,
alternativamente, vuoi alla cessione delle attività e delle passività, vuoi
alla cessione dell'azienda o di un ramo della stessa, che a quella di beni e
rapporti giuridici individuabili in blocco.
In
buona sostanza, mentre nella cessione di azienda si ha il trasferimento di un
complesso di beni strumentali all'esercizio dell’impresa, nella cessione di
attività e passività l'accento è spostato sulla sostituzione di un soggetto
ad un altro in un insieme di rapporti giuridici[34].
A
parte, quindi, la lacuna istruttoria che solitamente accompagna il contenzioso
di cui ci occupiamo e che, di per sé, deve ritenersi idonea a determinare il
rigetto della domanda, vi sono altre e fondate ragioni per cui, a parere di chi
scrive, la pretesa all’unicità del rapporto non è suscettibile di trovare
accoglimento.
In
primo luogo va osservato che, nel nostro caso, ci troviamo di fronte ad una
cessione normativamente disciplinata[35],
limitata a quanto risultante dallo
stato passivo, che ha luogo sotto il controllo della Banca d’Italia, la quale
sovraintende sull’intero procedimento, mediante l’emanazione di specifiche
direttive ed autorizzazioni.
Segno
evidente ed ulteriore della differenza tra la normativa in tema di cessione
d’azienda e la nostra è, poi, lo stesso dato temporale: la novella emanata
dal legislatore del 1990 in tema di trasferimento[36],
non può non subire, in virtù del principio sulla successione della legge nel
tempo e di quello di specialità[37],
gli effetti della successiva disciplina speciale,
ovverosia di quella della cessione
delle attività e passività, disciplinata prima nel 1993 e poi nel 1999[38],
in occasione della riscrittura della disciplina della liquidazione coatta
amministrativa.
Ne
consegue che, l’istituto in commento viene a differenziarsi dalla cessione di
azienda in quanto, a seguito della liquidazione, l' “impresa
cedente, come universalità, come oggetto unitario distinto dai singoli beni che
la componevano, cessa di esistere….una volta dissolta l'organizzazione
aziendale, il trasferimento non è neppure concepibile”[39].
Ed,
a conferma della dissoluzione di cui
abbiamo testè parlato, deve ricordarsi come la liquidazione coatta riguardi,
nella generalità dei casi, casse rurali o banche popolari le cui attività e
passività vengono cedute a società di capitali, con cui è impossibile una confusione,
vista la differente attività d’impresa (di “lucro”
e non di “cooperazione e mutualità
senza fini di speculazione privata”), con inevitabili riflessi sulla
regolamentazione dei rapporti di lavoro sottostanti.
5.
Liquidazione coatta amministrativa dell’impresa bancaria e licenziamento.
– Tra i poteri del Commissario liquidatore, per agevolare la cessione
dell’azienda decotta, vi è quello di procedere al licenziamento di tutto il
suo personale.
Si
tratta di una determinazione la cui legittimità viene sempre contestata sul
piano giudiziario ma che, ad avviso di chi scrive,
difficilmente può essere posta in dubbio, come dimostra l’acquis
giurisprudenziale consolidato in materia.
Si
è, infatti, ritenuto che la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa,
pur non costituendo - al pari dei fallimento - giusta causa di risoluzione dei
rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 2119, ultimo comma, cod. civ., può
legittimamente giustificare il ricorso al licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, ogni qual volta il Commissario si determini a cessare l'attività
produttiva[40].
In
dettaglio, tale conclusione viene confermata dalla Suprema Corte anche
nell’ipotesi in cui permangano in essere attività connesse a quella
precedentemente esercitata. A riguardo, si è sottolineato come l'elemento della
cessazione dell'attività produttiva, da parte dell'impresa sottoposta alla
procedura liquidativa, deve essere inteso in senso relativo
e non assoluto, non coincidendo con la cessazione di quelle ad essa collaterali
e la cui temporanea protrazione, anche dopo l'intimazione del recesso, non
incide sulla sua giustificatezza[41].
Al
Commissario è, infatti, delegata una valutazione piena delle modalità con cui
perseguire gli obiettivi del suo mandato, i quali possono così sinteticamente
riassumersi: a) assicurare le finalità perseguite dall'Organo di Vigilanza e,
quindi, evitare che la crisi della singola banca possa produrre effetti negativi
per l'intero sistema creditizio; b) garantire gli obiettivi dei depositanti e
degli azionisti, volti a tutelare le sostanziali ragioni di credito, ovvero
mantenere il più possibile elevata la “ragione”
e la “misura” della partecipazione societaria; c) salvaguardare gli
obiettivi della cessionaria, sostanzialmente connessi ad acquisire, al minor
costo possibile, aziende operanti in zone geografiche o in settori di mercato ai
quali essa è rimasta estranea[42]
.
In
conclusione, debbono considerarsi “prioritario
il raggiungimento dello scopo della procedura concorsuale e l'esigenza di
tutelare gli interessi dei creditori e quelli dell'impresa da liquidare” e
pienamente legittime le decisioni del Commissario liquidatore, la cui
discrezionalità è riconosciuta dallo stesso ordinamento[43]
che le presume giustificate, in vista
dell'esigenza, avente rilevanza pubblicistica, di tutelare al meglio la massa dei creditori.
Opinamento
questo che trova, peraltro, conferma in quello più generale ed assolutamente
prevalente, secondo cui la cessazione dell'attività, decisa unilateralmente
dall'imprenditore, come pure i licenziamenti dallo stesso disposti in dipendenza
della stessa, vengono ritenuti insindacabili, quale ne sia la ragione
sottostante, in ragione della libertà di iniziativa economica sancita dall'art.
41 Cost.[44]
e della presunzione di legittimità che assiste gli atti formalmente e
sostanzialmente amministrativi.
6.
Impugnazione del licenziamento e giudice competente. - La
particolarità della disciplina in esame sembra, ad una sua prima lettura,
rendere dubbia la possibilità di istanziare al giudice del lavoro una domanda
tendente all’invalidazione dell’eventuale licenziamento, ex
art. 18 legge 20.5.1970, n. 300, apparendo tale normativa inapplicabile alla
liquidazione coatta dell’impresa bancaria.
Tale
procedimento è notoriamente, in prevalenza, finalizzato ad interessi
pubblicistici (garanzia costituzionale del risparmio e relativi interessi
compromessi), con la conseguenza che il provvedimento adottato dal commissario liquidatore, formalmente e
sostanzialmente amministrativo[45],
parrebbe sottratto ad ogni sindacato di merito del giudice ordinario, essendo la
sua giurisdizione limitata alle sole opposizioni ed impugnazioni relative alla
formazione dello stato passivo.
Di
guisa che, un atto solutivo del precedente rapporto, adottato dall’organo
esecutivo dell’autorità amministrativa di vigilanza, sembrerebbe contrastare
con la possibilità di istanziare al giudice ordinario un provvedimento
impeditivo di quella finalità, salva la verifica delle situazioni patrimoniali
consequenziali, successivamente al deposito dello stato passivo[46].
Tali
perplessità, ad avviso dello scrivente, possono essere fugate con diverse
argomentazioni.
Il
riconoscimento della natura amministrativa dell'attività svolta dal commissario
liquidatore, fino al deposito dello stato passivo[47],
non può in alcun modo incidere sul momento giurisdizionale della liquidazione,
per il quale valgono i principi sistematici che regolano il fallimento e le
procedure concorsuali in generale[48].
Tale
distinzione conserva la sua validità anche quando il decreto di liquidazione
riguardi imprese autorizzate alla raccolta del risparmio ed all'esercizio del
credito, nonostante la garanzia costituzionale di tali interessi e la loro
lesione rendano evidente la preminenza della finalità pubblica, a tutela della
quale si attua l’intervento della pubblica amministrazione, poiché non è
intaccata dalle disposizioni speciali (leggi 7 marzo 1938 n. 141 e 7 aprile 1938
n. 636, art. 77, 78), fatte salve dalle norme comuni a tutte le specie di
liquidazione coatta amministrativa (art. 5, 2 comma; 194, 11 comma; 209, ult.
comma; 264 l. fall.).
Deve,
quindi, concludersi che l'intero procedimento di liquidazione coatta ricade
nella sfera della giurisdizione ordinaria, con il solo limite della temporanea
improponibilità (art. 201, in rif. al 51 L.F.) delle domande relative
all'oggetto della verifica (crediti e
beni mobiliari), condizionate al previo espletamento del procedimento
amministrativo, il quale è ad un tempo preordinato all’interesse generale ed
a quello concorrente dei creditori e, nella specie, dei lavoratori dipendenti.
Ne
consegue che la qualifica della intimazione del licenziamento come atto
dovuto, perché esecutivo della valutazione discrezionale della pubblica
amministrazione, circa la necessità dell'eliminazione dell'istituto bancario
dal novero delle imprese esercenti nel settore creditizio, non sarebbe in sé
corretta, nè rilevante sul piano della discriminazione delle competenze
giurisdizionali.
Ferma
tale premessa, nell’ambito della problematica connessa al licenziamento dei
dipendenti, sembra potersi escludere con certezza la competenza della
magistratura del lavoro, in tutte le controversie in cui il lavoratore
licenziato, prima della messa in l.c.a. dell’istituto di credito, unitamente
alla declaratoria di illegittimità del recesso, chieda il risarcimento dei
danni, in forza del combinato disposto degli artt. 52, 201 L.F. e art. 83 D Lgs.
1.9.1993 n.385.
Tale
ultima norma, infatti, dispone che “dalla
data di insediamento degli organi liquidatori…non può essere promossa né
proseguita alcuna azione salvo quanto disposto dagli artt. 87 (opposizione allo
stato passivo) 88 (appello e ricorso per cassazione) 89 (insinuazioni tardive)
92 ( Adempimenti finali), né, per qualsiasi titolo, può essere parimenti
promosso né proseguito alcun atto di esecuzione forzata o cautelare. Per le
azioni civili di qualsiasi natura derivanti dalla liquidazione è competente
esclusivamente il tribunale del luogo dove la banca ha la sede legale”.
E’
evidente come la formulazione dell’art. 83 non consenta di applicare analogicamente, principi derivati dalla legge
fallimentare, dedicando il T.U. una disposizione di ampio tenore (che non
prevede eccezioni di sorta) al divieto di azioni individuali, la quale si
estende anche a quelle di cognizione, non essendo prevista la possibilità di
ritorno in bonis dell’ente
sottoposto alla procedura[49].
Allorquando
venga chiesta la condanna solidale della liquidazione e del cessionario “alla
reintegrazione nel posto di lavoro, nonchè al risarcimento del danno”, ne
consegue l’incompetenza funzionale del giudice del lavoro, in forza del
combinato disposto degli artt. 52 e 201 L.F. e 83 D.L. 1.9.1993, n. 385, norme
che comportano la cognizione complessiva ed unitaria della domanda da parte
dell’organo della procedura concorsuale competente[50].
In
materia di ripartizione della competenza per materia, fra il giudice del lavoro
e il tribunale fallimentare, in caso di fallimento del datore di lavoro occorre,
infatti, distinguere a seconda che la controversia abbia per oggetto, da un
lato, una pronuncia di mero accertamento, oppure costitutiva e, dall'altro, una
pronuncia di condanna al pagamento di somme di denaro.
Infatti,
secondo la Suprema Corte, la domanda del lavoratore, diretta esclusivamente
all'accertamento della pregressa esistenza del rapporto di lavoro subordinato,
con il datore di lavoro dichiarato fallito, e della legittimità, o meno, della
risoluzione adottata, rimane devoluta alla competenza funzionale e inderogabile
dei giudice del lavoro[51],
così come quella riguardante la reintegrazione o la prosecuzione del rapporto[52].
Sussiste,
invece, la competenza del tribunale fallimentare quando la pronuncia di
accertamento rappresenti la premessa logico-giuridica atta a sorreggere la
decisione, avente per oggetto il pagamento della retribuzione (o di altre
competenze spettanti al lavoratore), oppure del risarcimento del danno, la cui
pretesa deve essere fatta valere nel passivo fallimentare[53],
in virtù della disposizione contenuta nell'art. 24 r.d. 16 marzo 1942 n. 267,
dato che la stessa “non può essere
sottratta al principio del concorso ed alla procedura di accertamento del
passivo di cui agli art. 52 e 92 ss. del regio decreto medesimo”[54].
Nella
liquidazione coatta amministrativa, infatti, non appare applicabile l'art. 24 1.
fall., non essendo tale norma richiamata nel successivo art. 200[55],
ma il combinato disposto di cui agli art. 52 e 201 1. fall., in base ai quali la
partecipazione di un credito al concorso deve essere oggetto di una procedura di
accertamento necessaria ed inderogabile di natura amministrativa.
Ne
consegue il difetto temporaneo di giurisdizione del giudice ordinario, dovendo
la domanda nella sua unitarietà essere fatta valere nella fase amministrativa dì
accertamento dello stato passivo, davanti ai competenti organi della procedura[56]
fermo restando, ovviamente, il fatto che il provvedimento attinente alla
formazione dello stato passivo potrà formare oggetto di opposizione o di
impugnazione, ai sensi dell'art. 209 del medesimo r.d. n. 267 dei 1942,
solamente davanti al tribunale, competente per territorio, e giammai davanti al
giudice dei lavoro.
Solo
in tal modo il creditore, nell’ipotesi in cui il commissario liquidatore,
dovesse escludere in toto od in parte
il suo credito, potrà, successivamente alla definizione della fase
amministrativa di verifica dei crediti, proporre opposizione davanti al
tribunale fallimentare della sede legale dell'impresa, in virtù della
competenza funzionale inderogabile del tribunale stesso nei giudizi di
opposizione allo stato passivo, introdotta dall'art. 209 1. fall., in deroga ai
criteri della competenza per materia, per valore e per territorio[57].
Deve
quindi concludersi che, in base al combinato disposto degli art. 52 e 201 l.
fall., non sia possibile separare il momento dichiarativo o di accertamento del
rapporto di lavoro subordinato, da quello consequenziale della pretesa economica
del lavoratore, essendo il primo propedeutico all'accertamento del secondo,
restando, la cognizione complessiva ed unitaria della domanda attribuita
all'organo della procedura concorsuale competente.
Si
è premesso che l’ipotesi fin qui esaminata è relativa alla fattispecie nella
quale l’atto risolutivo sia stato posto in essere prima della messa in
liquidazione dell’impresa.
Ad
identiche conclusioni, invece, non sembra potersi giungere nell’ipotesi in cui
il licenziamento venga adottato dai commissari liquidatori, i quali si siano
avvalsi della prestazione lavorativa dei dipendenti.
Tale
fattispecie, invero, sembra essere disciplinata dall’ultimo comma del citato
art. 83 del D. Lgs. 1.9.1993 n.385, il quale espressamente prevede che “per
le azioni civili di qualsiasi natura derivanti
dalla liquidazione...competente è esclusivamente il tribunale del luogo dove la
banca ha la sede legale”.
In
buona sostanza, nell’ipotesi in cui il comportamento potenzialmente lesivo di
diritti sia posto in essere “direttamente” dagli organi della l.c.a. (“per
le azioni civili di qualsiasi natura derivanti
dalla liquidazione”), le azioni a tutela degli stessi potranno
essere esercitate in sede
giurisdizionale, con l’unica particolarità di individuare l’organo
giudiziario competente per territorio (“competente
è esclusivamente il tribunale
del luogo dove la banca ha la sede legale”), in deroga alla disciplina
generale in materia di competenza territoriale.
In
tal senso induce a ritenere il tenore letterale della norma, come anche
il combinato disposto delle norme applicabili.
Sotto
tale ultimo profilo, vale considerare che, laddove l’inciso normativo dovesse
essere interpretato nel senso di dover, comunque, esperirsi la fase
amministrativa di accertamento dello stato passivo, e solo in un secondo
momento, nel caso di mancato accoglimento della richiesta, fosse possibile
ricorrere alla tutela giurisdizionale, formando oggetto di opposizione o di
impugnazione, tale disposizione sarebbe del tutto pleonastica, giacché, in ogni
caso, ai sensi del combinato disposto degli artt. art. 52, 201 l. fall., e 83
del D. Lgs. 1.9.1993 n.385, la competenza sarebbe, comunque, del tribunale della
sede legale della società posta in l.c.a..
Sotto
un profilo sistematico, peraltro, occorre mettere in rilievo come nella
fattispecie, ciò che viene sottoposto al controllo giurisdizionale è un “comportamento”
posto in essere da quello stesso organo che in sede amministrativa dovrebbe
esaminare, prima facie, la fondatezza
delle ragioni poste a base della richiesta di riconoscimento di credito.
Diveris
verbis, il
liquidatore, una volta posto in essere il licenziamento, sarebbe chiamato a
giudicare della legittimità del proprio operato.
Appare,
invece, più rispettoso del principio basilare, della separazione dei poteri, un
interpretazione che sottoponga direttamente
all’esame dell’organo giudiziario competente la fondatezza delle ragioni
creditorie originate da un comportamento posto in essere da un soggetto che,
certamente svolge una funzione pubblica, ma che, con altrettanta
sicurezza, non può essere il primo giudice dei propri comportamenti.
Residua
il problema, oggi superato dall’introduzione del Giudice Unico di Tribunale,
se la competenza esclusiva individuata dall’ultimo comma dell’art. 83, sia
soltanto da riferirsi a quella territoriale, ovvero anche a quella funzionale o
per materia.
Alla
luce dell’ultima novella del rito civile, l’unico problema rimasto sarebbe,
eventualmente, attinente al rito applicabile, con una preferenza, proprio in
ragione della materia trattata, squisitamente giuslavoristica, per quella
disciplinata dagli artt. 409 e seguenti c.p.c..
Tullio
Fortuna
Avvocato
in Palermo
Assistente
ordinario diritto del lavoro
Università
di Palermo
[1] Tal convincimento trae spunto da un ampio filone giurisprudenziale che considera trasferimento d’azienda ogni ipotesi di sostituzione del datore di lavoro, indipendentemente dalla natura giuridica del mezzo utilizzato per dar luogo alla traslazione. Cfr. ex pluribus: Cass. 23.1.1986, n. 448, in Not.giur.lav. 1986, 511; Cass. 28.11. 1983, n. 6612, in Foro it. 11985, I, c.106.
[2] VILLANI, Trasferimento d’azienda, voce del Digesto Italiano, Torino, 1999.
[3] Così: Cass. 29.10.1966, n. 2714, in Foro it. 1967, I, 283. Conf.: Cass. 5.4.1995, n.3974; 12.2.1993, n. 17771; 19.8.1991, n.8907; 15.1.1990, n. 123; 10.3.1990, n.1963.
[4] Così: Cass. 11.7.1989, n. 3267, in M.G.L., 1989, 459.
[5] Così: Cass. 17.3.1993, n. 3148, in Riv.it.dir.lav. 1994, II, 413.
[6] La Suprema Corte esclude la configurabilità di un
trasferimento d’azienda quando i beni, le attività e le passività cedute
dal primo al secondo istituto di credito siano atomisticamente valutabili e
difetti la prova che essi integrino un compiuto strumento d'impresa. Così:
Cass., sez. lav., 30-12-1999, n. 14755; Cass. 15.9.1997, n. 9174, Matone –
Monte Paschi Siena, Mass.; Cass.
14.1.1981, n.301 in Arch. Civ. 1981,
435; T. Siracusa,
07-05-1999, Fallica — Monte Paschi Siena in Foro
it., 1999, I, 3313.
[7]
Com’è noto la giurisprudenza comunitaria riconduce nella nozione di trasferimento d’azienda casi oltremodo variegati. E’ a tutti
noto quello dell’affidamento ad altri dei lavori di pulizia svolti,
anteriormente al trasferimento, da un unico dipendente del datore di lavoro
cedente (Corte Giustizia 14 aprile 1994 causa n. 392192, Schimdt in Riv.it.dir.lav, 1995,11,608 con nota di P. Lambertucci) od, ancora,
quello di un'impresa, titolare di concessione di vendita di autoveicoli per
una determinata zona, che cessi l'attività proseguita poi da altra, cui
venga trasferita parte del personale, senza elementi patrimoniali (Corte
Giustizia 7 marzo 1996 cause n. 171/94 e 172194, Merckx e Neuhuys, in Not. giur. lav., 1996, 462), nonché il caso dell’affidamento ad
un imprenditore esterno della gestione del servizio mensa aziendale,
precedentemente svolto in maniera diretta (Corte Giustizia 12 novembre 1992,
causa 209191 Watson Rask, in Not.
giur. lav., 1992, 863).
Tali
pronunzie risentono della formulazione finale della direttiva n. 98/50 del
giugno 1998, ove si prevede che il trasferimento possa riguardare anche parti d'impresa, precisandosi che è considerato trasferimento
anche quello di «un'entità economica
che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati
al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria»,
prestandosi tale nozione più agevolmente ad essere interpretata nel senso
di «svincolare il giudizio sull'entità
economica da trasferire dalla necessaria presenza di elementi materiali e
strutturali».
[8]
Cfr.: Corte di Giustizia CEE 25.7.1991, n. 362/1989, in Dir.Lav. 1991, II, 329, con nota di FOGLIA, Trasferimento d’impresa nel corso di procedure concorsuali
conservative e diritto comunitario. Sul punto cfr. anche LAMBERTUCCI, La
disciplina del trasferimento d’azienda in crisi al vaglio della Corte di
Giustizia, in Riv.it.dir.lav.,
1996, II, 268.
[9] Il giudice, pur impossibilitato a disapplicare norme interne che ritenga contrastanti con una direttiva, deve tuttavia interpretarle «quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi all'art. 189, terzo comma, del trattato ... a prescindere dal fatto che si tratti di norme interne precedenti o successive alla direttiva» (Corte di Giustizia 14 luglio 1994, n. 91/92, Faccini Dori).
Ad eguale conclusione perviene la Corte con la sentenza 7.12.1995 Spano c. Società Fiat Geotech e Fiat Hitachi Escavators, in Lav. Giur. 1996, 455, ove si ribadisce il principio secondo cui, benché essa abbia costantemente ribadito che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo, e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, la sentenza Faccini Dori, cit.), nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretarlo quanto “più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva”, per conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 189, terzo comma, del Trattato (cfr.: sentenza Faccini Dori, cit., punto 26).
[10] Cfr.: direttiva 14 febbraio 1977 n. 77/187, interpretata in base alle sentenze della Corte di Giustizia della Comunità europea D'Urso del 25.7.1991, n. 362/89 in Giust.civ. 1992, I, 1121, con nota di CONTALDI e in Dir. Lav. 1991, II, 329, con nota di FOGLIA, e Spano, del 7.12.1995, n. 472/93, in Foro. it. 1996, IV, 205, con nota di COSIO; in Riv. it. dir. lav. 1996, II, 261, con nota di LAMBERTUCCI; in Mass. giur. lav. 1996, 225 con nota di ROMEI; nonchè la più recente direttiva 29 giugno 1998 n. 98150 la quale ha come suo fine specifico la protezione dei “lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, in particolare per assicurare il mantenimento dei loro diritti”, e l’obiettivo di “far sì che la ristrutturazione dell’impresa non comporti conseguenze negative sui loro dipendenti”.
[11] Così, da ultimo: Cass. 12.5.1999, n. 4724, in Lav.giur. 1999, 12, 1124.
[12] MANNACIO, in nota a Cass. 12.5.1999, n.4724, in Lav.giur. 1999, 12, 1128.
[13] Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di merito, la procedura collettiva, designata dall’art. 47 della L. 428/1990 integra un elemento costitutivo della fattispecie complessa a formazione progressiva del trasferimento d’azienda, in assenza della quale non si producono i relativi effetti (cfr.: Nola 29.1.1997, Esposito c. Finmeccanica, in Mass. Giur. Lav. 2000, 5). Ad eguale risultato si perviene allorquando l’informazione, in ordine alle ricadute della vicenda traslativa, non sia chiara ed esauriente (così: Pret. Milano, 16.12.1993, ibidem, 5) circa i motivi addotti a giustificazione delle iniziative oggetto della procedura. Il previsto obbligo esclude però un controllo da parte delle OO.SS. sul merito delle scelte imprenditoriali e/o un loro diritto a conoscere “le ulteriori e future iniziative o già programmate dall’azienda o, comunque, compatibili con il piano di esternalizzazione da essa preventivato (così: Pret. Milano 19.1.1999, ibidem, 6), essendo il suo contenuto delimitato dalle prescrizioni di cui alle lett. a), b) e c) del comma 1 dell’art. 47 che “pone uno stretto finalismo fra la comunicazione dei motivi del trasferimento, l’accertamento delle conseguenze di esso per i dipendenti e le misure previste a tutela dei lavoratori interessati al trasferimento dell’azienda o di sue parti” (così: Pret. Milano 16.2.1998, ibidem, 7). La ratio dell’art. 47, in altre parole, va individuata nell’esigenza di consentire al sindacato: “a) di controllare la vicenda traslativa dell’azienda, specie in ordine alla capacità del nuovo titolare di gestire e/o di rilanciare l’azienda, ai piani d’investimento, ai programmi produttivi, ai livelli occupazionali e alle condizioni di lavoro garantite ai lavoratori e b) di esprimere il proprio punto di vista” (così: Pret. Napoli, 7.12.1993, 8).
[14] MANNACIO, op.ult.cit., 1129.
[15]
Sent. Spano, cit.
[16] Sent. Abels 7.2.1985, N, 135/83 in Foro it. 1986, IV, 111 con nota di DE LUCA; sent. D’Urso, cit.
[17] Conf.: Corte di Giustizia 25.7.1991, sentenza D’Urso, cit.
[18] Sent. D’Urso, cit..
[19] FOGLIA, nota a Corte di Giustizia CEE, 25 luglio 1991, n. 362/89, in Dir.lav.II, 1991, 329.
[20] VILLANI, op.ult.cit., 670.
[21] Ancora VILLANI, op.ult.cit., 671; ROMEI, Il trasferimento d’azienda in crisi, in Dir. Rel. Ind., 1992, 46.
[22] PERA, Fallimento e rapporto di lavoro, in Riv.it.dir.lav. 1999, 245.
[23] Come conferma l’art. 3, comma 3 della legge n. 223 del 1991, il quale stabilisce non essere dovuto il contributo previsto dall’art. 5, comma 4, nell’ipotesi di licenziamento attuato nell’ambito di una procedura concorsuale liquidatoria. Così: CAIAFA, Fallimento, cessazione dell’attività e dell’azienda, licenziamento del personale dipendente: quale procedura?, in Mass.giur.lav., 1995, 126 ss.
[24] Così, ancora, PERA, op. ult. cit, 247, il quale ricorda come solo LIEBMAN, Il rapporto di lavoro nell’amministrazione straordinaria della grande impresa in crisi e nel fallimento (un confronto), in Mass.giur.lav. 1998, 968, abbia avuto la franchezza di affermare come la previsione di un obbligo del curatore di provocare l’intervento sia paradossale ed ingiustificata.
[25] “L’interesse pubblico”, è stato sottolineato, “alla tutela del risparmio raggiunge il massimo di soddisfazione con la conservazione dell'intero complesso aziendale quantomeno sul piano della professionalità, del valore economico dei beni organizzati e della possibile prosecuzione o novazione dei rapporti pregressi in maniera unitaria in capo al cessionario”. In questo contesto - si è detto - la funzione estintiva del soggetto titolare dell'impresa bancaria, svolta dalla liquidazione coatta, tende a coordinarsi con la conservazione dell'impresa, oggettivamente considerata nel suo complessivo valore economico-organizzativo, ciò grazie al ricorso dei due istituti della cessione delle attività e passività e del sistema di garanzia dei depositanti (Così: FORTUNATO, sub art 90, in Commentario al Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 1994, p. 478; id., La liquidazione coatta amministrativa, in La nuova legge bancaria, a cura di Ferro Luzzi e Castaldi, Milano, 1996, 1770 ss.; La liquidazione coatta delle Banche dopo il Testo Unico: lineamenti generali e finalità, in Banca, Borsa e titoli di credito, Milano, 1995, 1, 777 ss.; DESIDERIO, La disciplina delle crisi, in La nuova legge bancaria, Napoli, 1995, 294.
[26] Così: CAIAFA, I rapporti di lavoro e le procedure concorsuali, Padova, 1994, 233.
[27]
Lo stesso art. 83 del T.U. 385/1993 conferma la sostanziale analogia tra la
liquidazione coatta e la procedura fallimentare prevedendo che “dal
termine indicato nel comma 1 si producono gli effetti previsti dagli
articoli, 42, 44, 45 e 66, nonché dalle disposizioni del titolo 11, capo
III, sezione Il e sezione IV della legge fallimentare”. Ed, infatti,
la norma prevede: la sospensione dei pagamenti (articolo 83, comma 1), la
produzione di altri effetti propri del fallimento (articolo 83, comma 2) e
il divieto di azioni giudiziarie contro la liquidazione (articolo 83, comma
3). La sola differenza tra le due procedure è che, mentre nel fallimento è
il giudice delegato che provvede alla formazione dello stato passivo, alla
liquidazione delle attività acquisite e, quindi, alla loro distribuzione,
nel caso della liquidazione, tali funzioni sono svolte dallo stesso
commissario liquidatore che dovrà ottenere la preventiva autorizzazione
degli organi competenti cui è demandata per legge una funzione di vigilanza
e controllo (CAIAFA, op.ult.cit.,
235).
[28] Cfr.: art. 54, 7º comma, e 75, 3º comma, della legge bancaria di cui al r.d.l. n. 375 del 1936, conv. nella l. n. 141 del 1938.
[29]
Cass., Sez. un., 3.7.1993, n. 7284.
[30]
Cfr., ad esempio: Pretura Palermo, Dott. Frasca, 12.2.1998 – 22.9.1998,
Simonetti c. Cram l.c.a. e Banca di Palermo S.p.a., ined.;
Cass. 15.9.1997 n.9174, Matone c. Banca Popolare S. Maria Assunta e Monte
dei Paschi S.p.a.
[31] che deciderà, secondo i criteri dettati dall’art. 1362 e ss. cod. civ., con accertamento non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, in base alla interpretazione della volontà negoziale,desumibile dalle clausole contrattuali e da ogni altra circostanza di fatto.
[32] Cfr.: Cass. 21 ottobre 1995 n. 10993 la quale chiarisce come non sia sufficiente che i beni conferiti “abbiano fatto parte di un'azienda”, essendo, altresì, necessario che essi, per le loro caratteristiche ed il loro collegamento funzionale, rendano possibile lo svolgimento di una specifica impresa.
[33]
Cass. 15.9.1997 n. 9174.
[34]
TUSINI
COTTAFAVI, La cessione delle attività
e passività nella gestione delle crisi bancarie, in La
nuova disciplina dell'impresa bancaria, a cura di Morera e Nuzzo, 3,
Milano, 1996, 64, secondo cui la cessione di azienda, quale forma di
cessione integrale, è ipotesi propria del diritto comune, mentre la
cessione di attività e passività è propria della disciplina bancaria. Sul
tema, ancora: FORTUNATO, op. ult. cit., 72, il quale evidenzia come “benché
di fatto possa esservi anche in fase di liquidazione coatta un trasferimento
di azienda esaustivo di tutte le attività e passività, non necessariamente
la cessione di azienda coincide con la cessione di tutte le attività e
passività”.
[35] La specificità della disciplina, la si rinviene già anche in epoca antecedente all’emanazione del d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385: 1) l'art. 71 r.d.l.12 marzo 1936 n. 375 (c.d. legge bancaria), disponeva che "i commissari liquidatori procedono a tutte le operazioni della liquidazione secondo le direttive dell'Ispettorato" (quest'ultimo poi sostituito dalla Banca d'Italia); 2) il successivo art. 75, terzo comma, permetteva la cessione "in blocco delle attività col parere favorevole del Comitato di sorveglianza e con l'autorizzazione dell'Ispettorato" (poi della Banca d'Italia); 3) il precedente art. 54 prevedeva la possibilità, previe le necessarie autorizzazioni e il compimento di particolari incombenze, sia della "sostituzione di un'azienda di credito ad un'altra per l'esercizio di una sede o di una filiale", sia "la cessione delle attività o delle passività di un'azienda di credito in liquidazione ad un'altra azienda".
[36]
Art. 47 legge n.428 del 1990, in attuazione della Direttiva CEE n.77/187.
[37] Vedi quella giurisprudenza che ha posto in luce
l’inapplicabilità dell’art.
2112 c.c., rilevando come tale norma riguardi il trasferimento delle aziende
in genere e non possa trovare applicazione laddove esista una disciplina
speciale, quale è quella della cessione di attività e passività, nel
quadro della liquidazione coatta amministrativa delle aziende di credito (l. 10 giugno 1940, n. 933; art. 54, , co. 7, r.d.l. 12 marzo
1936, n. 375, e successive
modificazioni): cfr. A. Napoli,
31.1.1990, Montini — Banca Fabbrocini, in Dir.
e giur., 1990, 118.
[38]
D.lgt. n. 385/1993; D.L. 23.7.1997, n. 415; Legge 4.12.1996, n. 659;
D. Lgs. n.342/1999.
[39] Così: Cass., 1 giugno 1974, n. 1385, in Banca, Borsa e Titoli di credito, 1975, Il, 5. Sul tema: PORTALE, Sostituzione di un’azienda di credito ad un’altra nell’esercizio di una sede o filiale e responsabilità per i debiti da revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente, in Banca, Borsa e titoli di credito, 1989, 4. Anche secondo COLOMBO, Crediti e debiti nella cessione di aziende bancarie, in Riv. Soc. 1970, 1150, “nell'attività di un imprenditore bancario “i beni organizzati” in senso stretto svolgono una funzione certamente meno importante che in altre imprese e passano sicuramente in secondo piano di fronte alla massa di rapporti obbligatori (crediti e debiti a fonte contrattuale), che legano la banca alla clientela“.
[40] Cfr. Cass. 3 ottobre 1996, n. 8670, in Not.giur.lav. 1997, 91; Cass., 2 maggio 1996, n. 396, ibidem, 1996, 399; Cass., 9 novembre 1982, n. 5913, in Il fallimento, 1983, 597; Cass. 26 gennaio 1988, n. 648, in Dir. Fall. 1988, 393; Cass., 9 dicembre 1992, n. 12998, in Il Fallimento, 1993, 593.
[41] Così: Cass. n. 8670/1996, cit.
[42] Così: GALANTI, La crisi degli enti creditizi nella giurisprudenza: La liquidazione coatta amministrativa. Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, n.24, Roma, 1991, 200.
[43] Vedi, ad esempio, le disposizioni richiamate dall'art. 201 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267.
[44]
Pongono in rilevanza l’aspetto pubblicistico dell’autorizzazione della
Banca d’Italia, alla cessione delle attività e delle passività di
un’azienda di credito ad un’altra: Cass., 30 maggio 1995, n. 6083, in Not.giur.lav.,
1995, 763 e giurisprudenza ivi richiamata; Cass., 12 agosto 1994. n. 7417, ibidem,
1994, 766 ed ivi ulteriori riferimenti; Cass. 3.7.1993, n.7284, Chioso –
Banca Pop. Crotone, Mass. Sui rapporti tra licenziamenti disposti in
dipendenza di procedure concorsuali e disciplina dei licenziamenti, cfr.:
Cass. 12 dicembre 1992, n. 12998. In dottrina, da ultimo, cfr.: PERA, op.
ult. cit., 240.
[45] La natura amministrativa si evince dal fatto che gli strumenti utilizzati hanno carattere complesso, componendosi vuoi di atti amministrativi che di atti negoziali. Così: CERULLI IRELLI, Crisi bancarie: i procedimenti amministrativi e i loro effetti, in Il sistema creditizio nella prospettiva del Mercato unico europeo, a cura di Cirenei e De Martin, Milano, 1990, 173 ss.
[46] Cfr. : Cass. Sez. Un. 2621/1964. Prima dell’entrata in vigore della legge n. 108/1990, la Corte costituzionale (sent. n. 189/1975) aveva affermato l’inoperatività dell’art. 18 statuto nei confronti di datori di lavoro non imprenditori e, quindi, nei confronti della liquidazione coatta, non essendo la stessa caratterizzata da alcuno svolgimento di attività imprenditoriale. Contra, sul punto: Cass. 31.3.1978, n. 1479, in Foro it. 1979, I,2442.
[47]
Cfr.: Cass. 1502/76; 1881/75; 9/73; 139/73; 2080/73; 272/72; 391/71;
443/71; 1954/69; 708/69.
[48]
Corte cost. n. 87/69; 159/75; Cass. n. 2781/69; 2907/69.
[49] Così: CAPRIGLIONE: Commentario a T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, Padova 1994, sub art. 83, 439
[50]
Così:: Cass. 20.7.1995, n. 7007, Banca di credito Girgenti in l.c.a. e
Credito Italiano S.p.a. c. Salusso; conf.: Cass. 3.10.1996, n. 8635; Cass.
3.3.1978, n. 1479.
[51] Cfr.: Cass. 10 maggio 1994, n. 4539, in Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 64; 5 aprile 1993, n. 4104, id., Rep. 1993, voce cit., n. 45.
[52] Cfr.: Cass. 20 dicembre 1982, n. 7043, in Foro it., 1983, 1, 657; Cass. 15 maggio 1990, n. 4162, id., Rep. 1990, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 55.
[53] Così:Cass. 10 maggio 1994, n. 4539; Cass. 15 luglio 1992, n. 8577.
[54]
Conclusione questa la
cui legittimità risulta confermata dalla Corte costituzionale (sent. 7
luglio 1988, n. 778, in Foro it.,
1989, 1, 368), la quale - nel dichiarare infondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 24 1. fall., promossa sotto il profilo
che la norma disporrebbe l'attrazione al foro fallimentare anche delle
controversie relative a rapporti di lavoro - ha affermato che “l'efficacia
attrattiva della competenza del tribunale fallimentare deve essere esclusa
per le azioni di impugnativa dei licenziamenti individuali rivolte ad
ottenere una sentenza costitutiva (invalidazione dei licenziamento e ordine
di reintegrazione nel posto di lavoro), come tale non comportante
direttamente l'accertamento del diritto di credito dei lavoratore per il
risarcimento del danno cagionato dal licenziamento illegittimo e la
conseguente condanna al pagamento”.
[55] Sull'inapplicabilità della vis attractiva nella procedura di liquidazìone coatta amministrativa, cfr.: Cass. 22 marzo 1994, n. 2724, in Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 65; Corte cost. 7 luglio 1988, n. 778, id., 1989, 1, 367.
[56] Cfr.: Cass. 22 marzo 1994, n. 2724; conf.: Cass. 28 novembre 1992, n. 12756, in Foro it., Rep. 1993, voce Liquidazione coatta amministrativa, n. 40; Cass. 16 gennaio 1991, n. 380; Cass., Sez. un., 5 dicembre 1990, n. 11683, ibidem, Rep. 1990.. In dottrina: BAVETTA, La liquidazione coatta amministrativa, Milano 1974, 146; LIEBMAN, Illegittime restrizioni all'azione dei creditori nella liquidazione coatta amministrativa, in Riv. dir. proc., 1972, 1; contra: Cass., sez. un., 15 gennaio 1987, n. 254, in Foro it., Rep. 1987, voce cit., nn. 69, 108, per la quale, in caso di liquidazione coatta amministrativa, il divieto per i creditori di agire in giudizio se non dopo che il credito sia fatto valere nella procedura di verificazione dello stato passivo, non integra un temporaneo difetto di giurisdizione dei giudice ordinario, ma un caso di improponibilità o improseguibilità della domanda, con conseguenti effetti sul procedimento in corso.
[57] Corte cost. 22 aprile 1986, n. 102, in Foro it., 1986, 1, 1762; Cass. 14 luglio 1989, n. 3319.
LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA
DELL’IMPRESA BANCARIA, CESSIONE DELLE ATTIVITA’ E PASSIVITA’ E DIRITTI DEI
LAVORATORI.
Sommario:
1.- Il quadro normativo. 2.- Ambito di applicabilità dell’art. 47 l. n.
428/1990. 3.- La liquidazione coatta ed i suoi effetti sull’azienda ed i
lavoratori. 4. - Cessione delle attività e passività ed applicabilità
dell’art. 2112 cod.civ. 5. -
Liquidazione coatta amministrativa dell’impresa bancaria e licenziamento. 6.
Impugnazione del licenziamento e giudice competente.
1. Il quadro normativo.
- Le presenti riflessioni nascono dal desiderio di fornire un contributo in
ordine ai possibili esiti del contenzioso promosso dai dipendenti dell’azienda
bancaria in crisi, assunti, una volta spirata la liquidazione ed intervenuta la
cessione delle attività e delle passività, dal nuovo acquirente.
Le
vicende conflittuali che ne scaturiscono hanno, com’è intuibile, per oggetto
la rivendicazione di condizioni di lavoro connesse alla posizione acquisita alle
dipendenze del cedente, fondata sulla
presunta e generalizzata applicabilità dell’art. 2112 c.c.[1].
Tale
convincimento è avvalorato dal fatto che la cassazione, difettando nel nostro
ordinamento, vuoi una nozione di “azienda”,
che di “trasferimento”[2],
riconduce nel campo di applicazione di tale norma la traslazione, quando,
indipendentemente dal mezzo giuridico usato, essa abbia per oggetto un’universitas
rerum costituente il complesso dei beni organizzati per l’esercizio
dell’impresa, comprendente: cose corporali (merci, mobili, arredi, immobili),
cose immateriali (avviamento commerciale, concessione, marchi, brevetti, etc.),
titoli sull’utilizzazione dei locali occupati, rapporti giuridici di lavoro
con il personale, debiti e crediti con la clientela; elementi tutti questi
unificati in senso funzionale dalla volontà del titolare e, cioè, dalla
destinazione ad un fine comune[3].
Pertanto,
contrariamente a quanto comunemente si ritiene, la fattispecie della mera
continuazione delle prestazioni lavorative, prima alle dipendenze di una
determinata impresa e successivamente di un’altra, ancorché svolte nei
medesimi locali, non integra di per sé e tout
court un trapasso d’azienda, ben potendo rappresentare una semplice
successione cronologica di rapporti di lavoro[4].
Parimenti
privo di rilevanza, a tal fine, deve ritenersi il semplice collegamento
fra l’impresa cedente e la cessionaria che, in quanto fenomeno meramente
economico, non è di per sé indicativo dei rapporti in successione, non
comportando il venir meno della sostanziale autonomia e della distinta
oggettività dei diversi datori di lavoro[5].
Ne
consegue che il giudice del merito, di fronte alla pretesa di cui ci occupiamo,
dovrà verificare, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, se
congruamente motivato, l’effettiva intenzione dei contraenti, allo scopo di
stabilire se i beni ceduti siano stati considerati nella loro autonomia unitaria
e strumentale, o in modo da comportare l’alienazione dell’azienda cui erano
collegati[6].
Sul
piano applicativo, pertanto, l’art. 2112 cod. civ. finisce con l’interagire
vuoi con la novella del suo testo, operata con l’art. 47 della l. 29 dicembre
1990, n. 428, al fine di adeguare la nostra normativa alla direttiva comunitaria
n.77/187, vuoi con il T.U. 1.9.1993 n. 385, come rivisitato dal D. lgs.
n.342/1999 sulla liquidazione coatta amministrativa dell’azienda bancaria, che
con la rappresentazione, parimenti ampia del concetto di trasferimento[7],
che si rinviene nella normativa comunitaria e che influisce sulla nostra
giurisprudenza.
Sotto
questo profilo, va ricordato che la Direttiva comunitaria (Direttiva del
Consiglio 14.2.1977, 77/187/CEE), in materia di trasferimento d’impresa, di
stabilimenti, o di parti di essi, in seguito a cessione contrattuale o fusione,
dà rilievo più che all’impresa,
all’attività dalla stessa svolta.
Riassuntivamente,
i giudici lussemburghesi riconducono, nell’ambito di applicazione della norma,
i casi di trasferimento in cui ricorrono i seguenti presupposti:
a)
mutamento della persona del responsabile della gestione dell’impresa,
che assuma gli obblighi del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, senza
richiedersi un accertamento, in ordine al trasferimento, della proprietà della
stessa;
b)
l’entità economica trasferita continui ad esistere ed a
conservare la propria identità, con gestione da parte del nuovo titolare
delle medesime attività economiche o analoghe, condotte dal precedente;
c)
non ci si trovi in presenza di una pura e semplice alienazione di
elementi attivi di un’azienda;
d)
il cambiamento del responsabile della gestione abbia origine da una
cessione contrattuale o da una fusione, con esclusione di quei trasferimenti
derivanti dalla legge o da atto unilaterale.
A
riguardo deve osservarsi che non tutte le procedure concorsuali vengono escluse
dall’applicazione della normativa di cui agli artt. 2112 cod. civ. e 47 legge
428/1990, essendo necessario constatare, caso per caso, se il decreto che
sancisce l’applicazione del procedimento amministrativo straordinario,
stabilisca, nel contempo, la continuazione dell’attività d’impresa in
regime commissariale, ovvero, se questo disponga per l’attuazione di una
procedura di liquidazione.
Nel
primo caso, si applicherà la disciplina generale prevista nella direttiva,
poiché il provvedimento ha natura conservativa, essendo stata
stimata la possibilità di restituire un futuro ad una determinata
impresa; nell’altra ipotesi, relativamente ad un provvedimento di natura
liquidatoria, si potrà far valere la deroga espressamente prevista dalla stessa
direttiva[8].
In
via di estrema sintesi, nel contenzioso di cui ci occupiamo, il convincimento
sul diritto al mantenimento dei diritti maturati alle dipendenze del precedente
datore di lavoro, viene avvalorato dal principio secondo cui, tra le varie
interpretazioni del diritto interno, l’interprete è tenuto a scegliere quella
più conforme alle direttive
comunitarie[9], ritenendosi la mera similarità
dell’attività economia trasferita, idonea a dar corpo al trasferimento
dell’azienda, nel quadro della tendenza, sempre più diffusa, a mantenere
il livello occupazionale e ad assicurare ai lavoratori la integrità e la
certezza della fonte di guadagno.
Tuttavia,
come vedremo nel corso di questa breve nota,
la cessione delle attività e delle passività, disposta a conclusione della
procedura di liquidazione coatta amministrativa dell’impresa bancaria, e
l’assunzione dei lavoratori della stessa da parte dell’acquirente, pur
guardata alla luce dei valori espressi dai principi sovranazionali[10],
non osta ad una rideterminazione del trattamento che gli stessi godevano alle
dipendenze del cedente.
2.
Ambito di applicabilità dell’art. 47 l. n. 428/1990. -
Il tema, com’è
evidente, è meritevole di interesse offrendo l’occasione per riflettere, sul
piano dei principi, sugli ambiti di comunicazione tra la normativa interna e
quella comunitaria e,
su quello applicativo, sull’azionabilità di una pretesa alla continuazione
del rapporto di lavoro ed alla conservazione del trattamento giuridico ed
economico goduto presso l’azienda di provenienza.
Ad
una prima lettura del quinto comma
dell’art. 47 L. 428/1990, sembrerebbe che la disapplicazione delle garanzie
postulate dall’art. 2112 cod.civ., testo novellato, possa avere luogo nel caso
in cui il trasferimento concerna aziende od unità produttive delle quali il
C.I.P.I. abbia accertato lo stato di crisi, o imprese nei confronti delle quali
vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo,
emanazione di un provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, ovvero
di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, a condizione:
a) che non vi sia continuazione dell'attività
produttiva;
b)
che, in sede di consultazione sindacale, sia stato raggiunto l’accordo[11],
cui accenna il quinto comma, indipendentemente dall’appartenenza o meno dei
lavoratori al sindacato stipulante o dalla loro adesione all'accordo stesso[12].
In
altre parole, per escludere l’effetto della conservazione dei rapporti di
lavoro, non sarebbe sufficiente la sola cessazione dell’attività produttiva
decisa dal liquidatore, ma necessari, pur sempre, una preventiva consultazione
ed un successivo accordo sulla sorte
del personale esuberante[13].
Per
verificare il grado di resistenza di tale tesi, occorre ricordare che la
formulazione della nostra norma, nelle intenzioni del legislatore italiano,
traeva la sua ratio dalla volontà di assolvere ad una funzione armonizzatrice tra
l'ordinamento interno e quello comunitario, quale risulta espresso nella
Direttiva 77/187, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli stati
membri, relative al mantenimento in servizio dei lavoratori, in caso di
trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di essi “in
seguito a cessione contrattuale o a fusione”[14].
Ad
una prima lettura, sembrerebbe che la norma comunitaria precluda, in linea di
principio, al nuovo acquirente di sottrarre
i diritti derivanti dal rapporto svoltosi alle dipendenze dell’alienante,
avendola la Corte di Giustizia ritenuta applicabile “anche
al trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi,
si sensi della legge 12.8.1977 n. 675” [15].
A
ben vedere, però, l’ipotesi della crisi
va distinta da quella in cui l’oggetto del negozio traslativo sia una delle
quattro procedure concorsuali prese in considerazione dal legislatore:
fallimento, concordato preventivo con cessione dei beni, liquidazione coatta
amministrativa o amministrazione straordinaria.
Diversamente
dal caso delle aziende in crisi, va rilevato che la Corte ha consentito alla
disciplina interna di derogare all’art. 2112 cod. civ., quando oggetto del
trasferimento siano aziende assoggettate a procedura concorsuale[16],
vuoi in considerazione del fatto che nella Direttiva n.77/187 difetta una
disposizione espressa riguardante il fallimento (punto 17 della motivazione),
vuoi della garanzia offerta dal penetrante controllo giudiziario che accompagna
l’intero procedimento[17].
Tale
conclusione trova conferma nella successiva direttiva 29 giugno 1998 n. 98/50
nella quale si considera (n. 8 del preambolo) che deroghe al mantenimento dei
diritti dei lavoratori, nel caso di trasferimento dell'azienda, «dovrebbero
essere permesse per uno Stato membro che disponga di procedure speciali per
promuovere la sopravvivenza di società di cui si dichiara che sono situazioni
di crisi economica».
In
buona sostanza, l’ipotesi delle aziende assoggettate a procedura concorsuale
va distinta, sia da quella delle aziende in crisi, che da quelle poste in
amministrazione straordinaria.
Per
queste ultime, i giudici del Lussemburgo[18] hanno ritenuto
applicabile la direttiva 77/187 alle unità produttive assoggettate a tale
procedimento, solo quando il decreto che dispone l’amministrazione
straordinaria preveda la continuazione dell’attività d’impresa.
Qualora,
invece, tale prosecuzione non sia stata disposta, non v’è spazio per
l’applicazione della direttiva, risultando il procedimento di amministrazione
straordinaria finalizzato, non a finalità
conservative del patrimonio aziendale, ma soltanto alla sola liquidazione dei
beni del debitore.
In
buona sostanza, oltre che dal tenore lessicale del quinto comma dell’art. 47
della legge 427/1990, anche dalle indicazioni desumibili dalla disciplina
comunitaria, sembra possibile trarre la conclusione che delle procedure
concorsuali prese in considerazione, solo quella dell’amministrazione
straordinaria, avente finalità conservative del patrimonio, rimanga
assoggettata alla disciplina concernente la consultazione sindacale.
Se
così è, una lettura (iper)garantista
della norma, tesa ad escludere la cesura tra il rapporto di lavoro svoltosi alle
dipendenze dell’impresa bancaria, posta in liquidazione coatta, e quello
instauratosi alle dipendenze della nuova azienda, che ne ha rilevato le attività
e le passività, come vedremo infra,
andrebbe ben oltre le indicazioni
fornite dalla Corte comunitaria, introducendo nel nostro ordinamento un
trattamento di miglior favore che non trova riscontro presso gli altri partners europei[19].
Ed,
infatti, la locuzione “…nel caso in
cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata e nel
corso della consultazione… sia stato raggiunto un accordo sindacale…”
non può riferirsi alle ipotesi delle “…aziende
o unità produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato di crisi
aziendale….o imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di
fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei
beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa” ma
all’ultimo elemento della sequenza “ovvero
di sottoposizione all’amministrazione straordinaria”, avendo la
congiunzione “ovvero” la funzione
di spezzarla, con riferimento alle procedure concorsuali, separate l’una
dall’altra dalla sola virgola, ad eccezione, appunto, dell’amministrazione
straordinaria.[20]
Tra
l’altro, in siffatte ipotesi, difettando un soggetto che possa disporre la
prosecuzione dell’attività, possibile solo in tale ultimo caso, renderebbe
priva di senso l’imposizione, a carico del commissario liquidatore,
dell’esperimento di una procedura che si rivelerebbe del tutto inutile sul
piano dei risultati.
Esperimento
che, si è rilevato, potrebbe addirittura compromettere il buon esito del
concordato, accreditatosi sulla base di una valutazione statica della situazione
aziendale e della sua appetibilità
solo dopo la cessazione di ogni attività[21].
Né,
per pervenire a contrario avviso, si potrebbe opporre che una conclusione così
troncante sarebbe preclusa dal dettato dell’art. 3 legge 223/1991.
Si
è, infatti, rilevato[22]
come la previsione secondo cui, nell’ipotesi di cessazione dell’attività
produttiva, ove non venga disposta la liquidazione, il curatore, previa domanda
al ministro, possa ottenere il trattamento straordinario di integrazione
salariale, per un periodo non superiore a dodici mesi, non sia non un obbligo,
ma una soluzione che nella pratica viene adottata per evitare possibili azioni
risarcitorie, pro bono pacis e per non
alimentare il conflitto sociale.
Da
una lettura attenta della norma, infatti, si evince che se il beneficio in
questione è concesso a domanda del
curatore, il quale ne può richiedere la concessione anche per un periodo
inferiore all’anno, per la risoluzione dei rapporti di lavoro, non occorre
attendere la constatazione dell’esito negativo della proroga, prevista nel
secondo comma, o la fine dell’intervento straordinario di cui al primo comma.
Il
che equivale a riconoscere che, allorquando nelle procedure concorsuali
liquidatorie, la risoluzione dei rapporti interessi tutto il personale
dipendente e venga adottata contestualmente, l’imposizione di una procedura
fortemente articolata sarebbe priva di senso, ben potendo trovare applicazione
la risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo[23].
Diversamente
opinando, non v’è chi non vede come si accrediterebbe quell’assistenzialismo
deteriore, secondo cui si dovrebbe chiedere l’intervento anche quando in
partenza si è convinti dell’obiettiva impossibilità di conservazione del
complesso operativo[24].
3.
La liquidazione coatta ed i suoi effetti sull’azienda ed i lavoratori. – La
disciplina della
liquidazione coatta dell’impresa bancaria, a ben vedere, deve ritenersi,
comunque, sottratta ad un’applicazione generalizzata dell’art. 47 della l.
407/1990, vieppiù nell’ipotesi in cui il trasferimento avvenga mediante la
cessione delle attività e delle passività.
Nel
nostro specifico settore, infatti, tale istituto viene utilizzato come procedura
finalizzata non all’eliminazione, bensì al salvataggio dell’impresa in
difficoltà, caratterizzata dalla rilevanza che assumono le esigenze di tutela
del credito e dei risparmiatori, tale da identificarsi con l’interesse
pubblico[25],
che giustifica l’assunzione da parte dell’autorità amministrativa di un
provvedimento autorizzatorio della gestione commissariale[26].
Il
Ministro del Tesoro, secondo quanto previsto dall’art. 57 della legge
bancaria, su proposta della Banca d’Italia e sentito il Comitato
interministeriale per il credito ed il risparmio, nell’ipotesi di accertate e
gravi irregolarità dell’amministrazione degli enti creditizi, di violazioni
delle norme legali e statutarie, di infrazioni nelle disposizioni emanate dal
servizio di vigilanza oppure di gravi perdite di patrimonio, può sciogliere gli
organi amministrativi delle aziende di credito.
E’
importante rilevare subito come l’iniziativa competa alla Banca d’Italia e
la decisione degli organi da nominare (Commissario straordinario e comitato di
sorveglianza) spetti, rispettivamente, al Ministero del Tesoro ed al Governatore
della Banca d’Italia: indici questi di un procedimento minutamente
disciplinato e caratterizzato dal perseguimento di finalità pubblicistiche.
L’organo
principale dell’intera procedura è il Commissario straordinario con funzioni
in parte ispettive ed in parte amministrative, al quale sono attribuiti poteri
ampiamente discrezionali in ordine all’accertamento delle condizioni della
situazione patrimoniale
dell’impresa bancaria e la ricerca delle strategie con cui far fronte allo
stato di dissesto, ed estrema ratio la
richiesta alla Banca d’Italia della messa in stato di liquidazione coatta
amministrativa.
Secondo
quanto stabilito dagli artt. 67-86 bis della
legge bancaria, il provvedimento di liquidazione determina la revoca
dell’autorizzazione all’esercizio del credito, prevedendosi, solo in via
eccezionale, la possibilità di continuazione dell’attività bancaria
da parte del Commissario (art. 75 R.D.L.
n. 375/1936).
In
tal caso, il Tribunale, dopo aver sentito l’autorità di vigilanza, dichiara
lo stato di cessazione dei pagamenti e, quindi, l’insolvenza dell’ente
creditizio trasmettendo il provvedimento alla Banca d’Italia perché disponga
la liquidazione coatta (art. 195 della legge fallimentare e 69 legge bancaria).
Si
concentrano, quindi, nella Banca d’Italia, quale organo
di vigilanza, i poteri di impulso, indirizzo e controllo che,
nell’ordinaria procedura fallimentare, sono assegnati al giudice delegato o,
comunque, al tribunale [27].
Una
volta intervenuta la dichiarazione di fallimento o la sottoposizione
dell'impresa alla liquidazione coatta amministrativa e, previe le necessarie
autorizzazioni, il curatore o il commissario liquidatore possono continuare
l'esercizio dell'attività produttiva - allo scopo di pervenire, non tanto alla
liquidazione atomistica degli elementi patrimoniali attivi e passivi facenti
capo all'impresa insolvente, quanto alla cessione dell'intera azienda.
L'autorizzazione
della Banca d'Italia alla cessione delle attività e delle passività di
un'azienda di credito ad un'altra[28]
rappresenta l'ultimo atto del procedimento di liquidazione coatta amministrativa
degli enti creditizi ed è emesso in esplicazione dei poteri pubblicistici di
supremazia e di controllo sull'attività bancaria - rispetto ai quali sono
configurabili solo interessi legittimi, con la conseguenza che essa esplica i
propri effetti su un piano diverso da quello privatistico ove si svolge, una
volta autorizzata, l'attività negoziale di cessione[29].
4.
Cessione delle attività e passività ed applicabilità dell’art. 2112 cod.civ.
- Nell’ipotesi in cui il commissario liquidatore ceda le attività e le
passività dell’azienda decotta ponendo, su indicazione della Banca
d’Italia, quale condizione dell’accordo, l’assunzione dei dipendenti
presso l’impresa cessionaria, è verosimile che in questi ultimi si fondi il
convincimento di essere titolari di un diritto all’unicità del rapporto, in
ciò confortati dalla lettura (non a sufficienza meditata) delle decisioni della
giurisprudenza nazionale e comunitaria in tema di trasferimento di azienda.
Quel
che solitamente accade è che nel contenzioso giudiziale[30]
che ne segue, una tale pretesa viene supportata, oltre che con una tralaticia
allegazione di pronunciamenti giudiziari, con la sola produzione dell’atto di
cessione delle attività e passività, nel convincimento che da esso se ne possa
evincere un trasferimento d’azienda.
Una
tale impostazione difensiva deve ritenersi, a ben vedere, perdente in partenza.
Ed,
infatti, trattandosi di cessione attuata ai sensi degli art. 2556 e segg. c.c.,
come anticipato ad esordio del nostro discorso, occorre che venga fornita al
giudice[31]
la prova che un siffatto evento si sia verificato, non in astratto, ma in
concreto.
Nel
dettaglio, dovrà provarsi in giudizio la traslazione, secondo la definizione
datane dall'art. 2555 c.c., di tutto il complesso
dei beni che erano stati organizzati dall'imprenditore e che, per le loro
caratteristiche ed il loro collegamento funzionale, rendono possibile lo
svolgimento di quella particolare impresa[32],
ben potendo, diversamente, gli elementi patrimoniali attivi e passivi, ancorchè
ceduti in blocco ad un unico soggetto (che acquista le attività e si accolla le
passività), essere considerati in senso atomistico, in quanto riferibili ad un
organismo ormai non più funzionante.
L'ipotesi
relativa alla cessione di tutte le attività e le passività della banca posta
in liquidazione coatta non può, pertanto, ritenersi tout
court indice della cessione dell’azienda nella
sua interezza[33], trattandosi di due
ipotesi del tutto distinte.
Risulta,
infatti, vuoi dall’art. 54, ultimo comma, del d.l. n. 375 del 1936, che
dall'art. 90, secondo comma, del d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385, come novellato
dal D.lgs. 342/199, che la legge ha conferito ai commissari, nell'attività di
liquidazione del patrimonio della banca, la possibilità di procedere,
alternativamente, vuoi alla cessione delle attività e delle passività, vuoi
alla cessione dell'azienda o di un ramo della stessa, che a quella di beni e
rapporti giuridici individuabili in blocco.
In
buona sostanza, mentre nella cessione di azienda si ha il trasferimento di un
complesso di beni strumentali all'esercizio dell’impresa, nella cessione di
attività e passività l'accento è spostato sulla sostituzione di un soggetto
ad un altro in un insieme di rapporti giuridici[34].
A
parte, quindi, la lacuna istruttoria che solitamente accompagna il contenzioso
di cui ci occupiamo e che, di per sé, deve ritenersi idonea a determinare il
rigetto della domanda, vi sono altre e fondate ragioni per cui, a parere di chi
scrive, la pretesa all’unicità del rapporto non è suscettibile di trovare
accoglimento.
In
primo luogo va osservato che, nel nostro caso, ci troviamo di fronte ad una
cessione normativamente disciplinata[35],
limitata a quanto risultante dallo
stato passivo, che ha luogo sotto il controllo della Banca d’Italia, la quale
sovraintende sull’intero procedimento, mediante l’emanazione di specifiche
direttive ed autorizzazioni.
Segno
evidente ed ulteriore della differenza tra la normativa in tema di cessione
d’azienda e la nostra è, poi, lo stesso dato temporale: la novella emanata
dal legislatore del 1990 in tema di trasferimento[36],
non può non subire, in virtù del principio sulla successione della legge nel
tempo e di quello di specialità[37],
gli effetti della successiva disciplina speciale,
ovverosia di quella della cessione
delle attività e passività, disciplinata prima nel 1993 e poi nel 1999[38],
in occasione della riscrittura della disciplina della liquidazione coatta
amministrativa.
Ne
consegue che, l’istituto in commento viene a differenziarsi dalla cessione di
azienda in quanto, a seguito della liquidazione, l' “impresa
cedente, come universalità, come oggetto unitario distinto dai singoli beni che
la componevano, cessa di esistere….una volta dissolta l'organizzazione
aziendale, il trasferimento non è neppure concepibile”[39].
Ed,
a conferma della dissoluzione di cui
abbiamo testè parlato, deve ricordarsi come la liquidazione coatta riguardi,
nella generalità dei casi, casse rurali o banche popolari le cui attività e
passività vengono cedute a società di capitali, con cui è impossibile una confusione,
vista la differente attività d’impresa (di “lucro”
e non di “cooperazione e mutualità
senza fini di speculazione privata”), con inevitabili riflessi sulla
regolamentazione dei rapporti di lavoro sottostanti.
5.
Liquidazione coatta amministrativa dell’impresa bancaria e licenziamento.
– Tra i poteri del Commissario liquidatore, per agevolare la cessione
dell’azienda decotta, vi è quello di procedere al licenziamento di tutto il
suo personale.
Si
tratta di una determinazione la cui legittimità viene sempre contestata sul
piano giudiziario ma che, ad avviso di chi scrive,
difficilmente può essere posta in dubbio, come dimostra l’acquis
giurisprudenziale consolidato in materia.
Si
è, infatti, ritenuto che la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa,
pur non costituendo - al pari dei fallimento - giusta causa di risoluzione dei
rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 2119, ultimo comma, cod. civ., può
legittimamente giustificare il ricorso al licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, ogni qual volta il Commissario si determini a cessare l'attività
produttiva[40].
In
dettaglio, tale conclusione viene confermata dalla Suprema Corte anche
nell’ipotesi in cui permangano in essere attività connesse a quella
precedentemente esercitata. A riguardo, si è sottolineato come l'elemento della
cessazione dell'attività produttiva, da parte dell'impresa sottoposta alla
procedura liquidativa, deve essere inteso in senso relativo
e non assoluto, non coincidendo con la cessazione di quelle ad essa collaterali
e la cui temporanea protrazione, anche dopo l'intimazione del recesso, non
incide sulla sua giustificatezza[41].
Al
Commissario è, infatti, delegata una valutazione piena delle modalità con cui
perseguire gli obiettivi del suo mandato, i quali possono così sinteticamente
riassumersi: a) assicurare le finalità perseguite dall'Organo di Vigilanza e,
quindi, evitare che la crisi della singola banca possa produrre effetti negativi
per l'intero sistema creditizio; b) garantire gli obiettivi dei depositanti e
degli azionisti, volti a tutelare le sostanziali ragioni di credito, ovvero
mantenere il più possibile elevata la “ragione”
e la “misura” della partecipazione societaria; c) salvaguardare gli
obiettivi della cessionaria, sostanzialmente connessi ad acquisire, al minor
costo possibile, aziende operanti in zone geografiche o in settori di mercato ai
quali essa è rimasta estranea[42]
.
In
conclusione, debbono considerarsi “prioritario
il raggiungimento dello scopo della procedura concorsuale e l'esigenza di
tutelare gli interessi dei creditori e quelli dell'impresa da liquidare” e
pienamente legittime le decisioni del Commissario liquidatore, la cui
discrezionalità è riconosciuta dallo stesso ordinamento[43]
che le presume giustificate, in vista
dell'esigenza, avente rilevanza pubblicistica, di tutelare al meglio la massa dei creditori.
Opinamento
questo che trova, peraltro, conferma in quello più generale ed assolutamente
prevalente, secondo cui la cessazione dell'attività, decisa unilateralmente
dall'imprenditore, come pure i licenziamenti dallo stesso disposti in dipendenza
della stessa, vengono ritenuti insindacabili, quale ne sia la ragione
sottostante, in ragione della libertà di iniziativa economica sancita dall'art.
41 Cost.[44]
e della presunzione di legittimità che assiste gli atti formalmente e
sostanzialmente amministrativi.
6.
Impugnazione del licenziamento e giudice competente. - La
particolarità della disciplina in esame sembra, ad una sua prima lettura,
rendere dubbia la possibilità di istanziare al giudice del lavoro una domanda
tendente all’invalidazione dell’eventuale licenziamento, ex
art. 18 legge 20.5.1970, n. 300, apparendo tale normativa inapplicabile alla
liquidazione coatta dell’impresa bancaria.
Tale
procedimento è notoriamente, in prevalenza, finalizzato ad interessi
pubblicistici (garanzia costituzionale del risparmio e relativi interessi
compromessi), con la conseguenza che il provvedimento adottato dal commissario liquidatore, formalmente e
sostanzialmente amministrativo[45],
parrebbe sottratto ad ogni sindacato di merito del giudice ordinario, essendo la
sua giurisdizione limitata alle sole opposizioni ed impugnazioni relative alla
formazione dello stato passivo.
Di
guisa che, un atto solutivo del precedente rapporto, adottato dall’organo
esecutivo dell’autorità amministrativa di vigilanza, sembrerebbe contrastare
con la possibilità di istanziare al giudice ordinario un provvedimento
impeditivo di quella finalità, salva la verifica delle situazioni patrimoniali
consequenziali, successivamente al deposito dello stato passivo[46].
Tali
perplessità, ad avviso dello scrivente, possono essere fugate con diverse
argomentazioni.
Il
riconoscimento della natura amministrativa dell'attività svolta dal commissario
liquidatore, fino al deposito dello stato passivo[47],
non può in alcun modo incidere sul momento giurisdizionale della liquidazione,
per il quale valgono i principi sistematici che regolano il fallimento e le
procedure concorsuali in generale[48].
Tale
distinzione conserva la sua validità anche quando il decreto di liquidazione
riguardi imprese autorizzate alla raccolta del risparmio ed all'esercizio del
credito, nonostante la garanzia costituzionale di tali interessi e la loro
lesione rendano evidente la preminenza della finalità pubblica, a tutela della
quale si attua l’intervento della pubblica amministrazione, poiché non è
intaccata dalle disposizioni speciali (leggi 7 marzo 1938 n. 141 e 7 aprile 1938
n. 636, art. 77, 78), fatte salve dalle norme comuni a tutte le specie di
liquidazione coatta amministrativa (art. 5, 2 comma; 194, 11 comma; 209, ult.
comma; 264 l. fall.).
Deve,
quindi, concludersi che l'intero procedimento di liquidazione coatta ricade
nella sfera della giurisdizione ordinaria, con il solo limite della temporanea
improponibilità (art. 201, in rif. al 51 L.F.) delle domande relative
all'oggetto della verifica (crediti e
beni mobiliari), condizionate al previo espletamento del procedimento
amministrativo, il quale è ad un tempo preordinato all’interesse generale ed
a quello concorrente dei creditori e, nella specie, dei lavoratori dipendenti.
Ne
consegue che la qualifica della intimazione del licenziamento come atto
dovuto, perché esecutivo della valutazione discrezionale della pubblica
amministrazione, circa la necessità dell'eliminazione dell'istituto bancario
dal novero delle imprese esercenti nel settore creditizio, non sarebbe in sé
corretta, nè rilevante sul piano della discriminazione delle competenze
giurisdizionali.
Ferma
tale premessa, nell’ambito della problematica connessa al licenziamento dei
dipendenti, sembra potersi escludere con certezza la competenza della
magistratura del lavoro, in tutte le controversie in cui il lavoratore
licenziato, prima della messa in l.c.a. dell’istituto di credito, unitamente
alla declaratoria di illegittimità del recesso, chieda il risarcimento dei
danni, in forza del combinato disposto degli artt. 52, 201 L.F. e art. 83 D Lgs.
1.9.1993 n.385.
Tale
ultima norma, infatti, dispone che “dalla
data di insediamento degli organi liquidatori…non può essere promossa né
proseguita alcuna azione salvo quanto disposto dagli artt. 87 (opposizione allo
stato passivo) 88 (appello e ricorso per cassazione) 89 (insinuazioni tardive)
92 ( Adempimenti finali), né, per qualsiasi titolo, può essere parimenti
promosso né proseguito alcun atto di esecuzione forzata o cautelare. Per le
azioni civili di qualsiasi natura derivanti dalla liquidazione è competente
esclusivamente il tribunale del luogo dove la banca ha la sede legale”.
E’
evidente come la formulazione dell’art. 83 non consenta di applicare analogicamente, principi derivati dalla legge
fallimentare, dedicando il T.U. una disposizione di ampio tenore (che non
prevede eccezioni di sorta) al divieto di azioni individuali, la quale si
estende anche a quelle di cognizione, non essendo prevista la possibilità di
ritorno in bonis dell’ente
sottoposto alla procedura[49].
Allorquando
venga chiesta la condanna solidale della liquidazione e del cessionario “alla
reintegrazione nel posto di lavoro, nonchè al risarcimento del danno”, ne
consegue l’incompetenza funzionale del giudice del lavoro, in forza del
combinato disposto degli artt. 52 e 201 L.F. e 83 D.L. 1.9.1993, n. 385, norme
che comportano la cognizione complessiva ed unitaria della domanda da parte
dell’organo della procedura concorsuale competente[50].
In
materia di ripartizione della competenza per materia, fra il giudice del lavoro
e il tribunale fallimentare, in caso di fallimento del datore di lavoro occorre,
infatti, distinguere a seconda che la controversia abbia per oggetto, da un
lato, una pronuncia di mero accertamento, oppure costitutiva e, dall'altro, una
pronuncia di condanna al pagamento di somme di denaro.
Infatti,
secondo la Suprema Corte, la domanda del lavoratore, diretta esclusivamente
all'accertamento della pregressa esistenza del rapporto di lavoro subordinato,
con il datore di lavoro dichiarato fallito, e della legittimità, o meno, della
risoluzione adottata, rimane devoluta alla competenza funzionale e inderogabile
dei giudice del lavoro[51],
così come quella riguardante la reintegrazione o la prosecuzione del rapporto[52].
Sussiste,
invece, la competenza del tribunale fallimentare quando la pronuncia di
accertamento rappresenti la premessa logico-giuridica atta a sorreggere la
decisione, avente per oggetto il pagamento della retribuzione (o di altre
competenze spettanti al lavoratore), oppure del risarcimento del danno, la cui
pretesa deve essere fatta valere nel passivo fallimentare[53],
in virtù della disposizione contenuta nell'art. 24 r.d. 16 marzo 1942 n. 267,
dato che la stessa “non può essere
sottratta al principio del concorso ed alla procedura di accertamento del
passivo di cui agli art. 52 e 92 ss. del regio decreto medesimo”[54].
Nella
liquidazione coatta amministrativa, infatti, non appare applicabile l'art. 24 1.
fall., non essendo tale norma richiamata nel successivo art. 200[55],
ma il combinato disposto di cui agli art. 52 e 201 1. fall., in base ai quali la
partecipazione di un credito al concorso deve essere oggetto di una procedura di
accertamento necessaria ed inderogabile di natura amministrativa.
Ne
consegue il difetto temporaneo di giurisdizione del giudice ordinario, dovendo
la domanda nella sua unitarietà essere fatta valere nella fase amministrativa dì
accertamento dello stato passivo, davanti ai competenti organi della procedura[56]
fermo restando, ovviamente, il fatto che il provvedimento attinente alla
formazione dello stato passivo potrà formare oggetto di opposizione o di
impugnazione, ai sensi dell'art. 209 del medesimo r.d. n. 267 dei 1942,
solamente davanti al tribunale, competente per territorio, e giammai davanti al
giudice dei lavoro.
Solo
in tal modo il creditore, nell’ipotesi in cui il commissario liquidatore,
dovesse escludere in toto od in parte
il suo credito, potrà, successivamente alla definizione della fase
amministrativa di verifica dei crediti, proporre opposizione davanti al
tribunale fallimentare della sede legale dell'impresa, in virtù della
competenza funzionale inderogabile del tribunale stesso nei giudizi di
opposizione allo stato passivo, introdotta dall'art. 209 1. fall., in deroga ai
criteri della competenza per materia, per valore e per territorio[57].
Deve
quindi concludersi che, in base al combinato disposto degli art. 52 e 201 l.
fall., non sia possibile separare il momento dichiarativo o di accertamento del
rapporto di lavoro subordinato, da quello consequenziale della pretesa economica
del lavoratore, essendo il primo propedeutico all'accertamento del secondo,
restando, la cognizione complessiva ed unitaria della domanda attribuita
all'organo della procedura concorsuale competente.
Si
è premesso che l’ipotesi fin qui esaminata è relativa alla fattispecie nella
quale l’atto risolutivo sia stato posto in essere prima della messa in
liquidazione dell’impresa.
Ad
identiche conclusioni, invece, non sembra potersi giungere nell’ipotesi in cui
il licenziamento venga adottato dai commissari liquidatori, i quali si siano
avvalsi della prestazione lavorativa dei dipendenti.
Tale
fattispecie, invero, sembra essere disciplinata dall’ultimo comma del citato
art. 83 del D. Lgs. 1.9.1993 n.385, il quale espressamente prevede che “per
le azioni civili di qualsiasi natura derivanti
dalla liquidazione...competente è esclusivamente il tribunale del luogo dove la
banca ha la sede legale”.
In
buona sostanza, nell’ipotesi in cui il comportamento potenzialmente lesivo di
diritti sia posto in essere “direttamente” dagli organi della l.c.a. (“per
le azioni civili di qualsiasi natura derivanti
dalla liquidazione”), le azioni a tutela degli stessi potranno
essere esercitate in sede
giurisdizionale, con l’unica particolarità di individuare l’organo
giudiziario competente per territorio (“competente
è esclusivamente il tribunale
del luogo dove la banca ha la sede legale”), in deroga alla disciplina
generale in materia di competenza territoriale.
In
tal senso induce a ritenere il tenore letterale della norma, come anche
il combinato disposto delle norme applicabili.
Sotto
tale ultimo profilo, vale considerare che, laddove l’inciso normativo dovesse
essere interpretato nel senso di dover, comunque, esperirsi la fase
amministrativa di accertamento dello stato passivo, e solo in un secondo
momento, nel caso di mancato accoglimento della richiesta, fosse possibile
ricorrere alla tutela giurisdizionale, formando oggetto di opposizione o di
impugnazione, tale disposizione sarebbe del tutto pleonastica, giacché, in ogni
caso, ai sensi del combinato disposto degli artt. art. 52, 201 l. fall., e 83
del D. Lgs. 1.9.1993 n.385, la competenza sarebbe, comunque, del tribunale della
sede legale della società posta in l.c.a..
Sotto
un profilo sistematico, peraltro, occorre mettere in rilievo come nella
fattispecie, ciò che viene sottoposto al controllo giurisdizionale è un “comportamento”
posto in essere da quello stesso organo che in sede amministrativa dovrebbe
esaminare, prima facie, la fondatezza
delle ragioni poste a base della richiesta di riconoscimento di credito.
Diveris
verbis, il
liquidatore, una volta posto in essere il licenziamento, sarebbe chiamato a
giudicare della legittimità del proprio operato.
Appare,
invece, più rispettoso del principio basilare, della separazione dei poteri, un
interpretazione che sottoponga direttamente
all’esame dell’organo giudiziario competente la fondatezza delle ragioni
creditorie originate da un comportamento posto in essere da un soggetto che,
certamente svolge una funzione pubblica, ma che, con altrettanta
sicurezza, non può essere il primo giudice dei propri comportamenti.
Residua
il problema, oggi superato dall’introduzione del Giudice Unico di Tribunale,
se la competenza esclusiva individuata dall’ultimo comma dell’art. 83, sia
soltanto da riferirsi a quella territoriale, ovvero anche a quella funzionale o
per materia.
Alla
luce dell’ultima novella del rito civile, l’unico problema rimasto sarebbe,
eventualmente, attinente al rito applicabile, con una preferenza, proprio in
ragione della materia trattata, squisitamente giuslavoristica, per quella
disciplinata dagli artt. 409 e seguenti c.p.c..
Tullio
Fortuna
Avvocato
in Palermo
Assistente
ordinario diritto del lavoro
Università
di Palermo
[1] Tal convincimento trae spunto da un ampio filone giurisprudenziale che considera trasferimento d’azienda ogni ipotesi di sostituzione del datore di lavoro, indipendentemente dalla natura giuridica del mezzo utilizzato per dar luogo alla traslazione. Cfr. ex pluribus: Cass. 23.1.1986, n. 448, in Not.giur.lav. 1986, 511; Cass. 28.11. 1983, n. 6612, in Foro it. 11985, I, c.106.
[2] VILLANI, Trasferimento d’azienda, voce del Digesto Italiano, Torino, 1999.
[3] Così: Cass. 29.10.1966, n. 2714, in Foro it. 1967, I, 283. Conf.: Cass. 5.4.1995, n.3974; 12.2.1993, n. 17771; 19.8.1991, n.8907; 15.1.1990, n. 123; 10.3.1990, n.1963.
[4] Così: Cass. 11.7.1989, n. 3267, in M.G.L., 1989, 459.
[5] Così: Cass. 17.3.1993, n. 3148, in Riv.it.dir.lav. 1994, II, 413.
[6] La Suprema Corte esclude la configurabilità di un
trasferimento d’azienda quando i beni, le attività e le passività cedute
dal primo al secondo istituto di credito siano atomisticamente valutabili e
difetti la prova che essi integrino un compiuto strumento d'impresa. Così:
Cass., sez. lav., 30-12-1999, n. 14755; Cass. 15.9.1997, n. 9174, Matone –
Monte Paschi Siena, Mass.; Cass.
14.1.1981, n.301 in Arch. Civ. 1981,
435; T. Siracusa,
07-05-1999, Fallica — Monte Paschi Siena in Foro
it., 1999, I, 3313.
[7]
Com’è noto la giurisprudenza comunitaria riconduce nella nozione di trasferimento d’azienda casi oltremodo variegati. E’ a tutti
noto quello dell’affidamento ad altri dei lavori di pulizia svolti,
anteriormente al trasferimento, da un unico dipendente del datore di lavoro
cedente (Corte Giustizia 14 aprile 1994 causa n. 392192, Schimdt in Riv.it.dir.lav, 1995,11,608 con nota di P. Lambertucci) od, ancora,
quello di un'impresa, titolare di concessione di vendita di autoveicoli per
una determinata zona, che cessi l'attività proseguita poi da altra, cui
venga trasferita parte del personale, senza elementi patrimoniali (Corte
Giustizia 7 marzo 1996 cause n. 171/94 e 172194, Merckx e Neuhuys, in Not. giur. lav., 1996, 462), nonché il caso dell’affidamento ad
un imprenditore esterno della gestione del servizio mensa aziendale,
precedentemente svolto in maniera diretta (Corte Giustizia 12 novembre 1992,
causa 209191 Watson Rask, in Not.
giur. lav., 1992, 863).
Tali
pronunzie risentono della formulazione finale della direttiva n. 98/50 del
giugno 1998, ove si prevede che il trasferimento possa riguardare anche parti d'impresa, precisandosi che è considerato trasferimento
anche quello di «un'entità economica
che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati
al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria»,
prestandosi tale nozione più agevolmente ad essere interpretata nel senso
di «svincolare il giudizio sull'entità
economica da trasferire dalla necessaria presenza di elementi materiali e
strutturali».
[8] Cfr.: Corte di Giustizia
CEE 25.7.1991, n. 362/1989, in Dir.Lav.
1991, II, 329, con nota di FOGLIA, Trasferimento
d’impresa nel corso di procedure concorsuali conservative e diritto
comunitario. Sul punto cfr. anche LAMBERTUCCI, La
disciplina del trasferimento d’azienda in crisi al vaglio della Corte di
Giustizia, in Riv.it.dir.lav., 1996, II,
268.
[9] Il giudice, pur impossibilitato a disapplicare norme interne che ritenga contrastanti con una direttiva, deve tuttavia interpretarle «quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi all'art. 189, terzo comma, del trattato ... a prescindere dal fatto che si tratti di norme interne precedenti o successive alla direttiva» (Corte di Giustizia 14 luglio 1994, n. 91/92, Faccini Dori).
Ad eguale conclusione perviene la Corte con la sentenza 7.12.1995 Spano c. Società Fiat Geotech e Fiat Hitachi Escavators, in Lav. Giur. 1996, 455, ove si ribadisce il principio secondo cui, benché essa abbia costantemente ribadito che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo, e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, la sentenza Faccini Dori, cit.), nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretarlo quanto “più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva”, per conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 189, terzo comma, del Trattato (cfr.: sentenza Faccini Dori, cit., punto 26).
[10] Cfr.: direttiva 14 febbraio 1977 n. 77/187, interpretata in base alle sentenze della Corte di Giustizia della Comunità europea D'Urso del 25.7.1991, n. 362/89 in Giust.civ. 1992, I, 1121, con nota di CONTALDI e in Dir. Lav. 1991, II, 329, con nota di FOGLIA, e Spano, del 7.12.1995, n. 472/93, in Foro. it. 1996, IV, 205, con nota di COSIO; in Riv. it. dir. lav. 1996, II, 261, con nota di LAMBERTUCCI; in Mass. giur. lav. 1996, 225 con nota di ROMEI; nonchè la più recente direttiva 29 giugno 1998 n. 98150 la quale ha come suo fine specifico la protezione dei “lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, in particolare per assicurare il mantenimento dei loro diritti”, e l’obiettivo di “far sì che la ristrutturazione dell’impresa non comporti conseguenze negative sui loro dipendenti”.
[11] Così, da ultimo: Cass. 12.5.1999, n. 4724, in Lav.giur. 1999, 12, 1124.
[12] MANNACIO, in nota a Cass. 12.5.1999, n.4724, in Lav.giur. 1999, 12, 1128.
[13] Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di merito, la procedura collettiva, designata dall’art. 47 della L. 428/1990 integra un elemento costitutivo della fattispecie complessa a formazione progressiva del trasferimento d’azienda, in assenza della quale non si producono i relativi effetti (cfr.: Nola 29.1.1997, Esposito c. Finmeccanica, in Mass. Giur. Lav. 2000, 5). Ad eguale risultato si perviene allorquando l’informazione, in ordine alle ricadute della vicenda traslativa, non sia chiara ed esauriente (così: Pret. Milano, 16.12.1993, ibidem, 5) circa i motivi addotti a giustificazione delle iniziative oggetto della procedura. Il previsto obbligo esclude però un controllo da parte delle OO.SS. sul merito delle scelte imprenditoriali e/o un loro diritto a conoscere “le ulteriori e future iniziative o già programmate dall’azienda o, comunque, compatibili con il piano di esternalizzazione da essa preventivato (così: Pret. Milano 19.1.1999, ibidem, 6), essendo il suo contenuto delimitato dalle prescrizioni di cui alle lett. a), b) e c) del comma 1 dell’art. 47 che “pone uno stretto finalismo fra la comunicazione dei motivi del trasferimento, l’accertamento delle conseguenze di esso per i dipendenti e le misure previste a tutela dei lavoratori interessati al trasferimento dell’azienda o di sue parti” (così: Pret. Milano 16.2.1998, ibidem, 7). La ratio dell’art. 47, in altre parole, va individuata nell’esigenza di consentire al sindacato: “a) di controllare la vicenda traslativa dell’azienda, specie in ordine alla capacità del nuovo titolare di gestire e/o di rilanciare l’azienda, ai piani d’investimento, ai programmi produttivi, ai livelli occupazionali e alle condizioni di lavoro garantite ai lavoratori e b) di esprimere il proprio punto di vista” (così: Pret. Napoli, 7.12.1993, 8).
[14] MANNACIO, op.ult.cit., 1129.
[15]
Sent. Spano, cit.
[16] Sent. Abels 7.2.1985, N, 135/83 in Foro it. 1986, IV, 111 con nota di DE LUCA; sent. D’Urso, cit.
[17] Conf.: Corte di Giustizia 25.7.1991, sentenza D’Urso, cit.
[18] Sent. D’Urso, cit..
[19] FOGLIA, nota a Corte di Giustizia CEE, 25 luglio 1991, n. 362/89, in Dir.lav.II, 1991, 329.
[20] VILLANI, op.ult.cit., 670.
[21] Ancora VILLANI, op.ult.cit., 671; ROMEI, Il trasferimento d’azienda in crisi, in Dir. Rel. Ind., 1992, 46.
[22] PERA, Fallimento e rapporto di lavoro, in Riv.it.dir.lav. 1999, 245.
[23] Come conferma l’art. 3, comma 3 della legge n. 223 del 1991, il quale stabilisce non essere dovuto il contributo previsto dall’art. 5, comma 4, nell’ipotesi di licenziamento attuato nell’ambito di una procedura concorsuale liquidatoria. Così: CAIAFA, Fallimento, cessazione dell’attività e dell’azienda, licenziamento del personale dipendente: quale procedura?, in Mass.giur.lav., 1995, 126 ss.
[24] Così, ancora, PERA, op. ult. cit, 247, il quale ricorda come solo LIEBMAN, Il rapporto di lavoro nell’amministrazione straordinaria della grande impresa in crisi e nel fallimento (un confronto), in Mass.giur.lav. 1998, 968, abbia avuto la franchezza di affermare come la previsione di un obbligo del curatore di provocare l’intervento sia paradossale ed ingiustificata.
[25] “L’interesse pubblico”, è stato sottolineato, “alla tutela del risparmio raggiunge il massimo di soddisfazione con la conservazione dell'intero complesso aziendale quantomeno sul piano della professionalità, del valore economico dei beni organizzati e della possibile prosecuzione o novazione dei rapporti pregressi in maniera unitaria in capo al cessionario”. In questo contesto - si è detto - la funzione estintiva del soggetto titolare dell'impresa bancaria, svolta dalla liquidazione coatta, tende a coordinarsi con la conservazione dell'impresa, oggettivamente considerata nel suo complessivo valore economico-organizzativo, ciò grazie al ricorso dei due istituti della cessione delle attività e passività e del sistema di garanzia dei depositanti (Così: FORTUNATO, sub art 90, in Commentario al Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 1994, p. 478; id., La liquidazione coatta amministrativa, in La nuova legge bancaria, a cura di Ferro Luzzi e Castaldi, Milano, 1996, 1770 ss.; La liquidazione coatta delle Banche dopo il Testo Unico: lineamenti generali e finalità, in Banca, Borsa e titoli di credito, Milano, 1995, 1, 777 ss.; DESIDERIO, La disciplina delle crisi, in La nuova legge bancaria, Napoli, 1995, 294.
[26] Così: CAIAFA, I rapporti di lavoro e le procedure concorsuali, Padova, 1994, 233.
[27]
Lo stesso art. 83 del T.U. 385/1993 conferma la sostanziale analogia tra la
liquidazione coatta e la procedura fallimentare prevedendo che “dal
termine indicato nel comma 1 si producono gli effetti previsti dagli
articoli, 42, 44, 45 e 66, nonché dalle disposizioni del titolo 11, capo
III, sezione Il e sezione IV della legge fallimentare”. Ed, infatti,
la norma prevede: la sospensione dei pagamenti (articolo 83, comma 1), la
produzione di altri effetti propri del fallimento (articolo 83, comma 2) e
il divieto di azioni giudiziarie contro la liquidazione (articolo 83, comma
3). La sola differenza tra le due procedure è che, mentre nel fallimento è
il giudice delegato che provvede alla formazione dello stato passivo, alla
liquidazione delle attività acquisite e, quindi, alla loro distribuzione,
nel caso della liquidazione, tali funzioni sono svolte dallo stesso
commissario liquidatore che dovrà ottenere la preventiva autorizzazione
degli organi competenti cui è demandata per legge una funzione di vigilanza
e controllo (CAIAFA, op.ult.cit.,
235).
[28] Cfr.: art. 54, 7º comma, e 75, 3º comma, della legge bancaria di cui al r.d.l. n. 375 del 1936, conv. nella l. n. 141 del 1938.
[29]
Cass., Sez. un., 3.7.1993, n. 7284.
[30]
Cfr., ad esempio: Pretura Palermo, Dott. Frasca, 12.2.1998 – 22.9.1998,
Simonetti c. Cram l.c.a. e Banca di Palermo S.p.a., ined.;
Cass. 15.9.1997 n.9174, Matone c. Banca Popolare S. Maria Assunta e Monte
dei Paschi S.p.a.
[31] che deciderà, secondo i criteri dettati dall’art. 1362 e ss. cod. civ., con accertamento non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, in base alla interpretazione della volontà negoziale,desumibile dalle clausole contrattuali e da ogni altra circostanza di fatto.
[32] Cfr.: Cass. 21 ottobre 1995 n. 10993 la quale chiarisce come non sia sufficiente che i beni conferiti “abbiano fatto parte di un'azienda”, essendo, altresì, necessario che essi, per le loro caratteristiche ed il loro collegamento funzionale, rendano possibile lo svolgimento di una specifica impresa.
[33]
Cass. 15.9.1997 n. 9174.
[34]
TUSINI
COTTAFAVI, La cessione delle attività
e passività nella gestione delle crisi bancarie, in La
nuova disciplina dell'impresa bancaria, a cura di Morera e Nuzzo, 3,
Milano, 1996, 64, secondo cui la cessione di azienda, quale forma di
cessione integrale, è ipotesi propria del diritto comune, mentre la
cessione di attività e passività è propria della disciplina bancaria. Sul
tema, ancora: FORTUNATO, op. ult. cit., 72, il quale evidenzia come “benché
di fatto possa esservi anche in fase di liquidazione coatta un trasferimento
di azienda esaustivo di tutte le attività e passività, non necessariamente
la cessione di azienda coincide con la cessione di tutte le attività e
passività”.
[35] La specificità della disciplina, la si rinviene già anche in epoca antecedente all’emanazione del d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385: 1) l'art. 71 r.d.l.12 marzo 1936 n. 375 (c.d. legge bancaria), disponeva che "i commissari liquidatori procedono a tutte le operazioni della liquidazione secondo le direttive dell'Ispettorato" (quest'ultimo poi sostituito dalla Banca d'Italia); 2) il successivo art. 75, terzo comma, permetteva la cessione "in blocco delle attività col parere favorevole del Comitato di sorveglianza e con l'autorizzazione dell'Ispettorato" (poi della Banca d'Italia); 3) il precedente art. 54 prevedeva la possibilità, previe le necessarie autorizzazioni e il compimento di particolari incombenze, sia della "sostituzione di un'azienda di credito ad un'altra per l'esercizio di una sede o di una filiale", sia "la cessione delle attività o delle passività di un'azienda di credito in liquidazione ad un'altra azienda".
[36]
Art. 47 legge n.428 del 1990, in attuazione della Direttiva CEE n.77/187.
[37] Vedi quella giurisprudenza che ha posto in luce
l’inapplicabilità dell’art.
2112 c.c., rilevando come tale norma riguardi il trasferimento delle aziende
in genere e non possa trovare applicazione laddove esista una disciplina
speciale, quale è quella della cessione di attività e passività, nel
quadro della liquidazione coatta amministrativa delle aziende di credito (l. 10 giugno 1940, n. 933; art. 54, , co. 7, r.d.l. 12 marzo
1936, n. 375, e successive
modificazioni): cfr. A. Napoli,
31.1.1990, Montini — Banca Fabbrocini, in Dir.
e giur., 1990, 118.
[38]
D.lgt. n. 385/1993; D.L. 23.7.1997, n. 415; Legge 4.12.1996, n. 659;
D. Lgs. n.342/1999.
[39] Così: Cass., 1 giugno 1974, n. 1385, in Banca, Borsa e Titoli di credito, 1975, Il, 5. Sul tema: PORTALE, Sostituzione di un’azienda di credito ad un’altra nell’esercizio di una sede o filiale e responsabilità per i debiti da revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente, in Banca, Borsa e titoli di credito, 1989, 4. Anche secondo COLOMBO, Crediti e debiti nella cessione di aziende bancarie, in Riv. Soc. 1970, 1150, “nell'attività di un imprenditore bancario “i beni organizzati” in senso stretto svolgono una funzione certamente meno importante che in altre imprese e passano sicuramente in secondo piano di fronte alla massa di rapporti obbligatori (crediti e debiti a fonte contrattuale), che legano la banca alla clientela“.
[40] Cfr. Cass. 3 ottobre 1996, n. 8670, in Not.giur.lav. 1997, 91; Cass., 2 maggio 1996, n. 396, ibidem, 1996, 399; Cass., 9 novembre 1982, n. 5913, in Il fallimento, 1983, 597; Cass. 26 gennaio 1988, n. 648, in Dir. Fall. 1988, 393; Cass., 9 dicembre 1992, n. 12998, in Il Fallimento, 1993, 593.
[41] Così: Cass. n. 8670/1996, cit.
[42] Così: GALANTI, La crisi degli enti creditizi nella giurisprudenza: La liquidazione coatta amministrativa. Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, n.24, Roma, 1991, 200.
[43] Vedi, ad esempio, le disposizioni richiamate dall'art. 201 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267.
[44]
Pongono in rilevanza l’aspetto pubblicistico dell’autorizzazione della
Banca d’Italia, alla cessione delle attività e delle passività di
un’azienda di credito ad un’altra: Cass., 30 maggio 1995, n. 6083, in Not.giur.lav.,
1995, 763 e giurisprudenza ivi richiamata; Cass., 12 agosto 1994. n. 7417, ibidem,
1994, 766 ed ivi ulteriori riferimenti; Cass. 3.7.1993, n.7284, Chioso –
Banca Pop. Crotone, Mass. Sui rapporti tra licenziamenti disposti in
dipendenza di procedure concorsuali e disciplina dei licenziamenti, cfr.:
Cass. 12 dicembre 1992, n. 12998. In dottrina, da ultimo, cfr.: PERA, op.
ult. cit., 240.
[45] La natura amministrativa si evince dal fatto che gli strumenti utilizzati hanno carattere complesso, componendosi vuoi di atti amministrativi che di atti negoziali. Così: CERULLI IRELLI, Crisi bancarie: i procedimenti amministrativi e i loro effetti, in Il sistema creditizio nella prospettiva del Mercato unico europeo, a cura di Cirenei e De Martin, Milano, 1990, 173 ss.
[46] Cfr. : Cass. Sez. Un. 2621/1964. Prima dell’entrata in vigore della legge n. 108/1990, la Corte costituzionale (sent. n. 189/1975) aveva affermato l’inoperatività dell’art. 18 statuto nei confronti di datori di lavoro non imprenditori e, quindi, nei confronti della liquidazione coatta, non essendo la stessa caratterizzata da alcuno svolgimento di attività imprenditoriale. Contra, sul punto: Cass. 31.3.1978, n. 1479, in Foro it. 1979, I,2442.
[47]
Cfr.: Cass. 1502/76; 1881/75; 9/73; 139/73; 2080/73; 272/72; 391/71;
443/71; 1954/69; 708/69.
[48]
Corte cost. n. 87/69; 159/75; Cass. n. 2781/69; 2907/69.
[49] Così: CAPRIGLIONE: Commentario a T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, Padova 1994, sub art. 83, 439
[50]
Così:: Cass. 20.7.1995, n. 7007, Banca di credito Girgenti in l.c.a. e
Credito Italiano S.p.a. c. Salusso; conf.: Cass. 3.10.1996, n. 8635; Cass.
3.3.1978, n. 1479.
[51] Cfr.: Cass. 10 maggio 1994, n. 4539, in Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 64; 5 aprile 1993, n. 4104, id., Rep. 1993, voce cit., n. 45.
[52] Cfr.: Cass. 20 dicembre 1982, n. 7043, in Foro it., 1983, 1, 657; Cass. 15 maggio 1990, n. 4162, id., Rep. 1990, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 55.
[53] Così:Cass. 10 maggio 1994, n. 4539; Cass. 15 luglio 1992, n. 8577.
[54]
Conclusione questa la
cui legittimità risulta confermata dalla Corte costituzionale (sent. 7
luglio 1988, n. 778, in Foro it.,
1989, 1, 368), la quale - nel dichiarare infondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 24 1. fall., promossa sotto il profilo
che la norma disporrebbe l'attrazione al foro fallimentare anche delle
controversie relative a rapporti di lavoro - ha affermato che “l'efficacia
attrattiva della competenza del tribunale fallimentare deve essere esclusa
per le azioni di impugnativa dei licenziamenti individuali rivolte ad
ottenere una sentenza costitutiva (invalidazione dei licenziamento e ordine
di reintegrazione nel posto di lavoro), come tale non comportante
direttamente l'accertamento del diritto di credito dei lavoratore per il
risarcimento del danno cagionato dal licenziamento illegittimo e la
conseguente condanna al pagamento”.
[55] Sull'inapplicabilità della vis attractiva nella procedura di liquidazìone coatta amministrativa, cfr.: Cass. 22 marzo 1994, n. 2724, in Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 65; Corte cost. 7 luglio 1988, n. 778, id., 1989, 1, 367.
[56] Cfr.: Cass. 22 marzo 1994, n. 2724; conf.: Cass. 28 novembre 1992, n. 12756, in Foro it., Rep. 1993, voce Liquidazione coatta amministrativa, n. 40; Cass. 16 gennaio 1991, n. 380; Cass., Sez. un., 5 dicembre 1990, n. 11683, ibidem, Rep. 1990.. In dottrina: BAVETTA, La liquidazione coatta amministrativa, Milano 1974, 146; LIEBMAN, Illegittime restrizioni all'azione dei creditori nella liquidazione coatta amministrativa, in Riv. dir. proc., 1972, 1; contra: Cass., sez. un., 15 gennaio 1987, n. 254, in Foro it., Rep. 1987, voce cit., nn. 69, 108, per la quale, in caso di liquidazione coatta amministrativa, il divieto per i creditori di agire in giudizio se non dopo che il credito sia fatto valere nella procedura di verificazione dello stato passivo, non integra un temporaneo difetto di giurisdizione dei giudice ordinario, ma un caso di improponibilità o improseguibilità della domanda, con conseguenti effetti sul procedimento in corso.
[57] Corte cost. 22 aprile 1986, n. 102, in Foro it., 1986, 1, 1762; Cass. 14 luglio 1989, n. 3319.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, Sez. Lav., M. V. c. BANCO DI NAPOLI S.P.A., 24 novembre 1998-27 marzo 1999.
avverso la sentenza n.655/96 del Tribunale di Trani, depositata il 17/09/96, R.G.N.93/91.
Codice disciplinare, mancata inserzione dei comportamenti vietati,esclusione.
Superamento del fido - Giusta causa di licenziamento - Tempestività: Superamento del termine di 90 giorni previsto dal Regolamento interno del Banco di Napoli - Estinzione del procedimento disciplinare - Rinvii disposti dalla Commissione disciplina - Rilevanza - Superamento del fido per prassi aziendale - Irrilevanza.
"E’ principio consolidato che non necessita la preventiva pubblicazione del codice disciplinare quando si tratta di comportamenti lesivi dell’interesse dell’impresa e manifestamente contrari all’etica comune.
In altre parole, non necessita la preventiva pubblicazione del codice disciplinare, quando si tratta si situazioni giustificative del recesso previste direttamente dalla legge (art.2119 c.c.), trattandosi di infrazioni il cui divieto risiede nella coscienza sociale quale minimum etico.
Orbene, nel caso di specie, come accertato dal Tribunale e come, del resto, dedotto nello stesso ricorso introduttivo, era stata ascritta al M., tra l’altro, la irregolarità "nella gestione della posizione della (xy), ovvero nel cosiddetto rischio di portafoglio, tale da determinare un’esposizione del Banco di circa L.m.4.345".
Venne contestata, dunque, una giusta causa di licenziamento, trattandosi di infrazioni, di tutta evidenza, gravissime, contrarie al dovere di diligenza del dipendente e tali da far perdere totalmente la fiducia nel medesimo.
Il Tribunale ha accertato, in proposito, che il M. "tacendo alla capogruppo che gli effetti già scontati non erano stati pagati dai debitori ceduti o anche solo omettendo di fare i necessari accertamenti, favoriva consapevolmente la trasformazione del contratto di sconto da contratto cosiddetto di liquidità in contratto speculativo e, con lo stesso artificio, impediva agli organi preposti di verificare l’effettiva sussistenza e bontà del credito scontato, sì da regolare la liquidità in relazione al cliente". Che tale meccanismo di autofinanziamento fu scoperto successivamente al trasferimento del M. da (…) a (…).
Il Tribunale ha accertato, altresì, che l’esposizione dell’(xy) verso il Banco di Napoli ammontava alla data delle relazioni ispettive a oltre quattro miliardi di lire, laddove il limite del fido concessole era di due miliardi.
Il Tribunale ha accertato, altresì, che il M. aveva assicurato al capogruppo "falsamente l’avvenuto ritiro da parte dei singoli trassati degli appunti scaduti", laddove "era la stessa (xy) che provvedeva a pagare gli effetti scaduti, senza che la provvista fosse fornita da coloro che risultavano debitori" e il pagamento avveniva mediante "il rilascio di assegni tratti su altre banche per importi corrispondenti all’ammontare del valore dei titoli in scadenza". Con tale sistema si raggiungeva lo scopo di più che raddoppiare la somma prevista in fido alla (xy), consentendole il già indicato meccanismo di autofinanziamento.
E’ evidente che trattasi di una condotta altamente lesiva per il Banco di Napoli, riguardando, oltretutto, una società successivamente fallita, comportante l’esposizione a un rischio ben maggiore di quello previsto con la concessione del fido, in quanto portò ad oltre il raddoppio dell’esposizione preventivata con l’ammontare del fido stesso, all’evidente fine di favorire detta società (non essendo ipotizzabile altro motivo), con vistosa violazione dell’obbligo di diligenza e di fedeltà verso il datore di lavoro, ai cui organi di sorveglianza il M. sottaceva le reali modalità del rapporto bancario svolto con la (xy).
Vi fu, dunque, cospicua violazione dell’interesse del datore di lavoro, nonché violazione degli obblighi di diligenza, di buona fede e di fedeltà incombenti sul lavoratore, con chiara violazione di quei criteri di etica professionale che devono sovrintendere allo svolgimento dei propri compiti da parte di un impiegato di banca, così come intesa e richiesta dalla coscienza sociale.
Rettamente, dunque, il Tribunale ha ravvisato nei fatti contestati e accertati una giusta causa di licenziamento, come tale non necessitante la previa pubblicazione del codice disciplinare......
Col secondo motivo si deduce la violazione dell’art.1362 c.c., in ordine all’interpretazione dell’art.80 del Regolamento interno del Banco di Napoli, nonché errata applicazione degli artt. 7 e 18 della legge 300/70. Omessa o quanto meno insufficiente e, comunque, contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, prospettati dal M. (n. 3 e 5 art.360 c.p.c.).
Si ricorda che l’art.80 del Regolamento interno del Banco prevede che "il procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi novanta giorni dall’ultimo atto e nessun ulteriore atto sia compiuto. Il procedimento estinto non può essere riassunto. L’estinzione produce la revoca della sospensione cautelare".
Si afferma, pertanto, l’avvenuta estinzione del procedimento disciplinare nel caso di specie, stante l’esorbitanza del termine suddetto.
Il motivo è infondato.
Il Tribunale ha rilevato l’interruzione del suddetto termine a causa dei numerosi rinvii disposti dalla commissione di disciplina anche su sollecitazione dello stesso M., il quale ebbe a chiedere un ulteriore rinvio in attesa del deposito della sentenza del Tribunale.
Il ricorrente afferma che laddove il Regolamento parla di atti, non può riferirsi a semplici rinvii di sedute. Il Tribunale, invece, rifacendosi alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha ritenuto il rinvio un atto idoneo ad interrompere il corso del termine, non avendo il significato di inerzia o disinteresse. Orbene, l’interpretazione del regolamento, atto amministrativo, rientra nell’esame del fatto, di esclusiva competenza del giudice del merito, sindacabile da questa Corte solo per insufficienza o contraddittorietà della motivazione o per violazione dei canoni interpretativi. Il motivo in esame, salvo il generico accenno nell’intestazione, non ha, in realtà, nel suo svolgimento, lamentato l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione, né la violazione dei canoni interpretativi. Ha solo offerto un’interpretazione del regolamento alternativa rispetto a quella adottata dal Tribunale. Senonchè a questa Corte è interdetta l’adozione di interpretazioni alternative, il suo sindacato sull’interpretazione data dal giudice del merito essendo circoscritto nei limiti sopra esposti. E’ appena il caso di aggiungere che l’atto di rinvio è indubbiamente un atto procedimentale e sta ad escludere l’inerzia, come in modo logico ritenuto dal Tribunale, anzi appalesa la costante attenzione prestata al procedimento in corso e la ritenuta necessità di un più ampio svolgimento del medesimo. Tanto più ciò è reso evidente nel caso di specie, dove all’istituto del rinvio, come accertato dal Tribunale, ricorse proprio l’attore, il che sta a dimostrare che essi sono stati espressione dell’esigenza di una maggiore meditazione, cioè di un più attento approfondimento del caso.
Il motivo va, dunque, disatteso.
Col terzo motivo, si assume la violazione degli art. 2119 e 1375 c.c. e insufficiente o quantomeno contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, prospettati dal M. (n.3 e 5 art.360 c.p.c.). Si denuncia la violazione del principio di tempestività e immediatezza dell’irrogazione della sanzione.
Il motivo è infondato.
Il Tribunale, in proposito, ha ritenuto: "l’attesa della definizione del giudizio penale e la complessità degli accertamenti svolti dal Banco in riferimento alla indubbia gravità dei fatti per cui è causa giustificano ampiamente il tempo di durata del procedimento disciplinare". Il ricorrente lamenta, invece, il decorso di sei mesi tra la sentenza penale e il licenziamento. Senonchè trattasi di fatti molteplici e di decisioni che involgevano l’opera di svariati uffici, da quelli ispettivi, da svolgersi oltretutto negli uffici periferici di appartenenza del lavoratore, a quelli da cui doveva promanare il provvedimento espulsivo, per cui, tenuto conto dei tempi di deposito della sentenza penale nonché degli avvisi relativi e delle determinazioni che in ordine alla sentenza stessa andavano assunte, appare pienamente logica la sentenza del Tribunale che ha ritenuto il termine de quo ragionevole in relazione al necessitato procedimento.
Il motivo va, dunque, disatteso.
Col quarto motivo si assume la violazione degli artt.437 e 421 c.p.c.,5 L. 694/64 e 2697 c.c. (n.3 art.360 c.p.c.).
Si deduce che il Tribunale avrebbe erroneamente rigettato l’eccezione di inammissibilità della prova contraria proposta dal Banco. Si afferma che "tale prova, non richiesta dall’Istituto, cui pure incombeva il relativo onere, non poteva essere disposta d’ufficio perché il Banco ne era decaduto".
Il motivo è infondato.
Il Tribunale ha ammesso, avvalendosi dei suoi poteri inquisitori, la prova testimoniale come richiesta dal M. nella memoria di costituzione del giudizio di appello promosso dal Banco, nonché la prova contraria richiesta dal Banco. Una volta ammessa la prova dell’attore, era conseguenziale l’ammissione della prova contraria del convenuto, per un ovvio rispetto della par condicio delle parti: una volta ritenuto che l’attore dovesse essere messo in condizioni di provare il suo assunto, uguale criterio, per un ovvio principio di imparzialità, doveva seguirsi nei confronti del Banco, tanto più che la prova nasceva dall’esercizio dei poteri discrezionali del Tribunale, quindi poteva prescindere dalla richiesta delle parti (art.427 c.p.c.).
Il motivo va, dunque, disatteso.
Col quinto motivo, si denuncia la violazione degli artt 2119,2104 e 2105 c.c. ed omessa ovvero insufficiente e, comunque, contraddittoria motivazione circa i punti decisivi della controversia prospettati dal M. (n.3 e 5 art.360 c.p.c.).
Si afferma che durante gli anni in cui il M. era preposto ad (...), alla (xy) erano stati concessi ulteriori affidamenti (in precedenza lievitati fino a venti miliardi), previo interessamento non solo della filiale di Foggia, ma anche della Direzione Generale di Napoli. Che la (xy) era garantita dalle fideiussioni dell’amministratore delegato, D. D. e di sua moglie, titolari di beni immobili e di depositi presso l’agenzia di (...) per complessivi dieci miliardi. Che trattavasi del cliente più importante. Che il tracollo dell’(xy) avvenne a seguito di un episodio verificatosi otto mesi dopo che il M. era stato trasferito a (...). Si afferma l’inesistenza dei fatti ascritti al M.; che, anzi, il suo comportamento provocò solo vantaggi al Banco. Che quando, a fine agosto 1985, il M. si trasferì a (…), la posizione (xy) non presentava alcuna esposizione o alcun insoluto. Che i giudici di merito non avevano dato rilevanza alla prassi aziendale basata su criteri di elasticità. Che l’ispezione da cui derivò la relazione firmata il 12.2.87 non poté riguardare l’epoca M.
Il motivo è infondato.
Esso, per la parte in cui richiede, sostanzialmente, un riesame del fatto è inammissibile. Per la parte in cui adombra un’insufficienza di motivazione della sentenza del Tribunale è infondato, sia perché, per molti versi, fa riferimento ad atti e deposizioni che, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non riporta testualmente, non consentendo il relativo esame da parte di questa Corte, sia perché non contesta l’accertamento, come svolto dal Tribunale, secondo il quale, come si è già detto sotto il primo motivo, il M. aveva consentito il formarsi di un sistema che permetteva all’(xy) un meccanismo di autofinanziamento: presentava allo sconto titoli per i quali non vi era alcuna operazione commerciale sottostante; quando i titoli venivano a scadenza, non erano pagati dai debitori ceduti ma "era la stessa (xy) che provvedeva a pagare gli effetti scontati, mediante il rilascio di assegni tratti su altre banche per importi corrispondenti". Con tale sistema la (xy) portava la sua esposizione fino ad oltre quattro miliardi, avendo un fido di solo due miliardi. Il M. lasciò che ciò si verificasse, omettendo di informare gli organi di controllo della procedura seguita dalla (xy), tacendo che gli effetti già scontati non erano stati pagati dai debitori ceduti. Così procedendo, cioè consentendo un’esposizione più che raddoppiata, espose il Banco ad enorme rischio, più che raddoppiato rispetto a quello cui il Banco intendeva esporsi, venendo, oltretutto, meno ai propri doveri di informazione dei superiori, al fine di consentirne il controllo, mancando, così, gravemente agli obblighi di fedeltà, di correttezza e di diligenza su di lui gravanti. Né lo giustificava l’intenzione di tener buono un cliente di primaria importanza, perché l’importanza del cliente non lo esimeva dall’informare i superiori di quanto stava avvenendo, lasciando ad essi ogni determinazione al riguardo.
Né rileva che le conseguenze del comportamento del M. si siano appalesate successivamente al periodo di sua gestione, in particolare col fallimento della (xy), perché resta fermo il fatto che l’esposizione, il rischio e il pericolo per il Banco furono realizzati e consentiti dal comportamento del M.
La ricostruzione dei fatti come esposti dal Tribunale non è stata dunque minimamente scalfita dal motivo in esame, che, quindi, va disatteso.
Il ricorso principale va, conseguentemente, rigettato.
Col ricorso incidentale condizionato si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt.1218, 1227, 2106 e 2119 c.c., 7 legge 20 maggio 1970 n.300, con riferimento all’art.360 n.3 e n.5 c.p.c.
Si lamenta che il Tribunale abbia ritenuto mancare la prova dell’affissione del codice disciplinare.
Il ricorso, in quanto condizionato al mancato accoglimento del ricorso principale, va dichiarato assorbito nel rigetto di tale ultimo ricorso.
Ragioni di giustizia inducono a compensare, tra le parti, le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Compensa, tra le parti, le spese di questo giudizio di cassazione.
Roma, 24 novembre 1998.
Depositata in Cancelleria il 27 marzo 1999.
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Tribunale
di Palermo, 18.11.1999-13-6-2000, Giudice unico del lavoro Dott. Rizzo, Di Mitri
Marco (Avv. G. e M.L. Musacchia) c. Banca di Palermo S.p.a. (Avv. T. Fortuna).
Il
datore di lavoro bancario, ove successivamente all’assunzione, venga a
conoscenza del comportamento di un proprio dipendente, posto in essere alle
dipendenze del precedente datore di lavoro,
idoneo a ledere il vincolo fiduciario, può procedere alla risoluzione
per giusta causa del rapporto di lavoro.Una siffatta determinazione non
contrasta con l'art. 8 dello Statuto dei lavoratori, concernendo una legittima
rielaborazione del giudizio concernente l'aspettativa di un futuro adempimento
della prestazione
(massima
T.F.)
Come
è noto, il mercato del lavoro soggiace ad un insieme di discipline giuridiche
aventi contenuto diverso.
Ed,
infatti, in esse coesistono logiche ed ispirazioni politiche differenti circa
l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro: accanto ad una concezione
notarile e burocratica, come in tema di assunzione per richiesta numerica ed
assunzione obbligatoria, si sviluppa, con riferimento a particolari tipologie di
lavoro, la prevalenza del principio dell'intuitus personae, ossia, di
quell'elemento della fiducia personale tra l'una e l'altra parte che compendia
esigenze di efficienza e produttività del lavoro, in quei casi in cui ci si
trova di fronte a processi produttivi tali, da richiedere adeguate e ben
calibrate doti professionali.
In
tali casi l'incidenza del profilo fiduciario è elevatissima tanto da
giustificare, con la pretesa, giuridicamente determinata, di una prestazione
secondo le regole della correttezza e della buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.),
una più pregnante istanza che sia capace di coinvolgere la persona del
lavoratore nell'ambito della solidarietà circa gli interessi delle parti e ciò
al fine di un più probabile raggiungimento del fine produttivo.
La
valorizzazione dei particolari requisiti che molti posti di lavoro possono
richiedere a chi li ricopra implica la necessità che al "posto giusto"
vi sia "l'uomo giusto".
Tutto
ciò inerisce a quel necessario rapporto di "collaborazione
-cooperazione" che porta alla valorizzazione dell'elemento
persornalistico nella dinamica di quei rapporti individuali di lavoro, come nel
settore bancario, in cui le incombenze dipendente siano in funzione strumentale
e diretta con gli obiettivi istituzionali dell'azienda.
Ora,
mentre nel corso dello svolgimento dei rapporto lavorativo, il vincolo
fiduciario tra datore e prestatore di lavoro prende corpo in ragione della
effettiva conoscenza delle qualità professionali che ciascuna delle parti vada
man mano acquisendo, la questione concernente la valutazione della "fiducia",
all'atto della selezione del dipendente da assumere, non può che basarsi su
altri elementi, non soccorrendo alcun dato di carattere esperienziale.
Cosi,
se fiducia sta per affidamento che l'un contraente riponga sull'altro, circa il
possesso di un patrimonio di correttezza e professionalità che rafforzi
l'aspettativa dell'adempimento della prestazione, deve rilevarsi come, nella
fase dell'assunzione, assuma rilevo, nell'ambito della "liceità"
(art. 8 St. Lav.), la valutazione delle pregresse esperienze lavorative del
dipendente.
Ai
sensi del cit. art. 8, infatti, "è fatto divieto al datore di lavoro,
ai fini dell'assunzione, come anche nel corso dello svolgimento del rapporto di
lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni
politiche, religiose o sindacali del
lavoratore, nonché
su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell' attitudine professionale
del lavoratore".
II
chiaro tenore letterale di tale norma consente, pertanto, di ritenere che, lecitamente,
il datore di lavoro possa fondare, o meno, un legame fiduciario in base alla
valutazione di fatti rilevanti ed attinenti alle pregresse esperienze lavorative
del prestatore di lavoro, idonei a conoscerne l'attitudine professionale.
Nel
caso in esame la Banca di Palermo assunse il Di Mitri 1'8.3.1997, gli conferì
la medesima qualifica di funzionario, ed, avendo avuto notizia dei fatti
ascritti allo stesso in quel procedimento penale, nel luglio del 1997, a seguito
della comunicazione da parte del dipendente, dell'ordinanza di rinvio a
giudizio, 1'8.1.1998, dopo aver compulsato, nell'arco dei cinque mesi
intercorrenti dal momento della acquisizione dell'ordinanza anzidetta, gli
inoltrò la suddetta lettera di contestazione e il 25.2.1998 lo licenziò.
Così
ricostruita la vicenda, alla luce di tutte le considerazioni svolte, deve
affermarsi l’incidenza lesiva del vincolo fiduciario siccome riferita alla
condotta tenuta dal Di Mitri nel pregresso rapporto di lavoro con la CRAM.
Invero,
la Banca assunse il Di Mitri, in virtù del Regolamento che disciplinò
l'assunzione delle attività e delle passività della CRAM, ed in quel momento,
circa il vissuto lavorativo del Di Mitri, era a conoscenza del fatto che questi:
a)
aveva prestato attività lavorativa alle dipendenze della Cassa Rurale ed
Artigiana di Monreale (CRAM) dal 18.2.1974, data in cui era stato assunto con la
qualifica di impiegato di seconda, fino al 7.3.1997, data in cui, già
funzionario di prima, interrompeva il rapporto di lavoro, essendosi dimesso, per
effetto dell'accordo stipulato, con gli Amministratori Straordinari dellaCRAM,
avanti all'U.P.L.M.O., in data 18.1.1997.
b)
che, nell'anno 1987 era stato nominato Responsabile del Settore "Ufficio
Rischi e Contenzioso", con i compiti e le responsabilità come da
Regolamento Interno Aziendale approvato nell'87.
c)
che dal settembre 1991 aveva avuto conferito l'incarico di sovrintendere e
coordinare gli uffici del Servizio Banca mantenendo la responsabilità diretta
dell'Ufficio Rischi - Anagrafe -Fidi e Condizioni", con i compiti e le
responsabilità di cui al nuovo regolamento aziendale.
d)
che dal febbraio 1992 il Consiglio di Amministrazione aveva integrato i compiti
e le attribuzioni degli Uffici facenti parte dei Servizio Banca, cui il Di Mitri
era preposto, secondo le precisazioni di cui al nuovo Regolamento Interno
Aziendale, che sostituiva il Regolamento approvato dal Consiglio il 23.3.1987
poi modificato con delibera del 24.9.1991.
e)
che dall'11.3.1994 il predetto, in ragione dell'approvazione della versione
aggiornata del Manuale Interno, il predetto aveva esercitato ulteriori compiti e
rivestito ulteriori responsabilità.
In
quel momento la Banca di Palermo era, così, a conoscenza di un curriculum del
Di Mitri indicativo di una sua specifica attitudine e professionalità nel
settore bancario e, soprattutto, scevro da inadempienze, giacchè nessuna
contestazione risultava essergli stata rivolta e, pertanto, nessuna sanzione
essergli stata comminata dalla CRAM al Di Mitri.
Ed
assumendo il predetto gli conferì un ruolo di pari rilievo attribuendogli la
stessa qualifica di funzionario.
Essa
venne a conoscenza dell'insieme dei comportamenti attribuiti al Di Mitri
soltanto quattro mesi dopo l'assunzione dello stesso
ed, in questo momento, a causa della brevità del tempo trascorso, non ha,
ancora, acquisito, in ragione della qualità del ruolo di responsabilità
attribuito al Di Mitri, nuovi (suoi) elementi di valutazione diretta della
"professionalità" del predetto siccome derivanti dalla
esperienza lavorativa in corso con lo stesso ed "autonomi"
rispetto al pregresso vissuto lavorativo.
Sicché
nella (ri)elaborazione del giudizio concernente l'aspettativa di un futuro
adempimento della prestazione non potè che tener conto della diversa
rappresentazione delle qualità personali del suo dipendente derivante dalla
conoscenza del suo vissuto lavorativo e, soprattutto, di fatti rilevanti ad esso
inerenti
E
tali comportamenti, secondo un giudizio da compiersi in base ad una
valutazione del loro (dis)valore di insieme ed in ragione di una previsione
probabilistica, portata avanti secondo i più generali canoni di essenziale
rilievo, non possono che ritenersi idonei a ledere la "fiducia"
che, invero, deve necessariamente intercorrere nel rapporto di
collaborazione - cooperazione intercorso tra le parti, in funzione strumentale
al fine cui è preordinata l'organizzazione imprenditoriale.
Deve
tenersi conto, invero, delle caratteristiche e peculiarità del rapporto di
lavoro bancario instaurato tra le parti in causa, del ruolo verticistico
attribuito al ricorrente, dell'istanza di particolare correttezza e della buona
fede rivolta al dipendente, richiedendone un coinvolgimento personale
nell'ambito della solidarietà circa gli interessi delle parti.
Non
può, pertanto, non condividersi la prognosi siccome formulata dal datore di
lavoro circa la inidoneità del suo dipendente ad una gestione professionalmente
corretta dei compiti di responsabilità affidatigli.
II
ricorso deve, conseguentemente, essere rigettato.