Giusi Simonelli nasce a Catania il 12.06.1970 e si laurea in Giurisprudenza, presso l’Università degli Studi di Palermo, nel 1995, con il massimo dei voti, sostenendo la tesi  L'effetto devolutivo dell'appello civile.

Subito dopo, inizia a collaborare con l’Istituto di Diritto Processuale Civile dell’Università di Palermo, curando, oltre l'attività didattica, quella scientifica, pubblicando scritti di notevole interesse,  quali: Il simultaneus processus tra cause soggette ai due diversi «riti ordinari» (Nota a T. Palermo, 29 marzo 1996, Soc. Samo c. Banca comm. it.), in Giust. civ., 1997, I, 249, e "Inderogabilità convenzionale della competenza territoriale nei procedimenti cautelari ante causam" (Nota a T. Palermo, 13 febbraio 1995, Soc. Cutrano c. Norditalia assicuraz.), in Giust. civ., 1996, I, 1487.

Nel maggio 1998 diviene Avvocato ed entra a far parte dello STUDIO FORTUNA, occupandosi oltre che di diritto del lavoro, di diritto civile e commerciale.

Tra le questioni più interessanti, trattate dall'Avv. Simonelli, ricordiamo:

 

Sentenza di patteggiamento, azione di regresso dell’INAIL: Prescrizione o decadenza?

 

Legenda:

Com’è noto il disposto del 5° comma dell’art. 112 del DPR n. 1124/1965, distingue due diverse ipotesi: l’una caratterizzata dal mancato accertamento da parte del giudice penale del fatto reato, dove il termine triennale deve ritenersi di decadenza e decorre dal giorno in cui è divenuta irrevocabile la sentenza penale; l’altra  che si configura, invece, in caso di intervenuta sentenza penale di condanna per il fatto che ha determinato l’infortunio o la malattia professionale, nel qual caso il termine triennale deve considerarsi di prescrizione e decorrere, anch’esso, dal giorno nel quale la sentenza è divenuta irrevocabile.

La ratio di tale distinzione va individuata nella circostanza che mentre nel caso della sentenza di non doversi procedere, viene a mancare ogni accertamento in ordine al fatto reato e, pertanto, è indispensabile prevedere un termine di decadenza (non soggetto ad interruzione) per arrivare, in tempi brevi, all’accertamento delle responsabilità, e non aggravare, così, l’onere probatorio a carico del datore di lavoro, invece nell’ipotesi di sentenza dibattimentale, l’accertamento in ordine alla responsabilità del fatto lesivo c’è già stato e, conseguentemente, il termine assegnato per la proposizione del giudizio civile nei confronti del terzo responsabile è  configurabile come termine di prescrizione, riferendosi a fatti per i quali non occorre esperire ulteriori indagini.

La sentenza di patteggiamento, al pari di quella di non doversi procedere ed a differenza di quella di condanna, non contiene, com’è noto, un accertamento del fatto di reato, atteso che nel procedimento ex art. 444 e ss. c.p.p., si ha l’applicazione di una pena “senza giudizio”: il magistrato giusdicente non deve dichiarare la colpevolezza dell’imputato, secondo un accertamento pieno basato sul contraddittorio delle parti, ma soltanto fare riferimento all’accordo tra pubblico ministero ed imputato sul merito dell’imputazione ed applicare la pena così come tra le parti concordata e ritenuta congrua rispetto alla qualificazione giuridica del fatto ed alle circostanze, pur esse dalle parti indicate.Né è possibile equiparare la volontà dell’imputato di applicazione della pena, ad un riconoscimento della propria colpevolezza, o ritenere che la stessa possa costituire un surrogato dell’accertamento pieno di responsabilità affidato al giudice, trattandosi di una scelta processuale riconducibile all’alea dell’ordinario processo e che può trovare legittima giustificazione nei più disparati motivi personali.

 

L’art. 444, II comma, c.p.p. dispone che “Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129, il giudice, sulla base degli atti,  se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché congrua la pena indicata, ne dispone con sentenza l'applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti”.

E’ evidente, dunque, che il Legislatore non ha in nessun caso previsto un accertamento del fatto di reato da parte del Giudice del procedimento speciale il quale, al contrario, valuta la correttezza della qualificazione giuridica dell’evento come prospettato dalle parti, peraltro, esclusivamente, “sulla base degli atti” e, cioè, senza ulteriori accertamenti di sorta.

Se così è, risulta, dunque, evidente che la sentenza che applica la pena non può “tecnicamente” contenere l’accertamento della responsabilità dell’imputato, dato che  ciò che manca è proprio “l’accertamento” (in tal senso, ex pluribus, Cass., sez. VI penale, 26.06.1995, secondo cui l’accertamento positivo del fatto di reato, “non può non conseguire alla completezza di un accertamento da parte del giudice, cui è invece qui (nel patteggiamento: n.d.r.) negata la stessa possibilità di un accertamento anche iniziale, dovendo egli limitarsi ad esaminare se, allo stato degli atti, sia da escludere l’evidenza della prova della innocenza”).

Non può attribuirsi maggior pregio, ai nostri fini, alla tesi secondo cui, essendo il fatto reato, alla base di tutti i procedimenti penali, il giudice del rito speciale non può prescindere dall’esame dello stesso “al fine di verificare se esso sussiste e se costituisce reato”.

In merito va rilevata la profonda  differenza che vi è tra l’accertamento del fatto di reato che, intervenendo a seguito del dibattimento, presuppone l’espletamento dell’attività istruttoria in contraddittorio delle parti e l’esame, ad opera del’organo giudicante, delle risultanze della stessa alla luce delle prospettazioni del PM e dell’imputato, dalla mera valutazione, in astratto ed allo stato degli atti, compiuta dal Giudice del rito speciale e volta, esclusivamente, a verificare se il fatto, inteso come manifestazione di un dato della realtà, sussiste e costituisce reato.

In ordine, poi, alla possibilità di equiparare la sentenza di patteggiamento ad una sentenza di condanna, oltre a quanto si dirà successivamente, va subito evidenziato come tale identificazione è fatta dalla legge solo a determinati fini, tanto che tale statuizione non produce alcun effetto nei  giudizi civili e amministrativi di danno. Del resto, se la sentenza di condanna e quella di patteggiamento fossero “ontologicamente” eguali, il Legislatore non avrebbe avuto alcuna necessità di prevedere espressamente la loro equipollenza, anche se solo a determinati fini.

Ciò, peraltro, trova conferma indiretta anche nei più recenti interventi legislativi in materia.

Ed infatti, l’art. 1 della legge 13.12.1999, n. 475, comma 2, dopo aver introdotto il comma 1 bis all’art. 15 della L. 15.03.1990 n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), secondo cui “Per tutti gli effetti disciplinati dal presente articolo, la sentenza prevista dall'articolo 444 del codice di procedura penale è equiparata a condanna”, al comma III, ha previsto che “La disposizione del comma 1-bis dell'articolo 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dal comma 2 del presente articolo, si applica alle sentenze previste dall'articolo 444 del codice di procedura penale pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.

Viene, dunque, naturale chiedersi: se ancor prima dell’entrata in vigore della citata legge (dicembre 1999/gennaio 2000), la sentenza di patteggiamento doveva considerarsi tout court una sentenza di condanna, che esigenza aveva il Legislatore di attribuire alla stessa  espressamente tale valore, limitandolo, peraltro, solo alle pronuncie intervenute successivamente all’entrata invigore della L. 475/99?

Del resto, al di là della qualificazione giuridica astrattamente attribuibile alla sentenza di patteggiamento, non può non rilevarsi come, in ipotesi di azione di regresso dell’INAIL, l’equiparazione della stessa ad una sentenza di condanna, e, dunque, l’assoggettabilità dell’azione dell’Istituto, ad un termine prescrizionale e non di decadenza, sarebbe fonte di una profonda ingiustizia stante l’evidente limitazione del diritto di difesa cui andrebbe incontro il datore di lavoro.

Ed invero.

Secondo l’art. 445 c.p.p., anche quando la sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, questa non ha, comunque,  efficacia nei giudizi civili o amministrativi.

A conferma di ciò, il successivo art. 651 c.p.p. dispone che “La sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.

La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a norma dell'articolo 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato”.

La predetta norma, dunque, non includendo tra le varie tipologie di sentenze indicate, anche quella emessa a seguito di procedimento ex art. 444 c.p.c. ha volutamente escluso che questa possa avere una qualunque efficacia nel giudizio civile o amministrativo di danno.

Ciò deriva, come già detto,  dalla particolare natura della predetta sentenza che, non comportando un accertamento positivo e costitutivo di responsabilità dell’imputato, ma soltanto la rinuncia di quest’ultimo a far valere le proprie eccezioni e difese,  non può costituire prova dell’ammissione di responsabilità da parte dell’imputato e ritenere che detta prova sia utilizzabile in un diverso procedimento (v., tra le tante, Cass., sez. VI penale, 26.06.1995, in Foro it., 1996, II, 359).

Da ciò deriva che la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio occorso al proprio dipendente, deve formare oggetto di autonomo accertamento da parte del giudice civile.

In tal senso si è pronunciata anche la Corte Costituzionale con sentenza dei 23.11/11.12.1995 n. 499, che ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità sollevata in relazione all’art. 10 del D.P.R. n. 1124/1965, nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio dell’azione di regresso dell’INAIL, l’accertamento del fatto reato sia compiuto dal Giudice civile quando nei confronti del datore di lavoro sia stata pronunciata sentenza ex art. 444 c.p.p.. Secondo la Corte, infatti, l’inefficacia della sentenza di patteggiamento nei giudizi civili o amministrativi, conforme alla peculiare natura della sentenza de qua, non fondata sull’accertamento pieno della responsabilità dell’imputato, legittima il giudice civile a conoscere inidentalmente di tale responsabilità, esattamente come avviene nel caso della vera e propria sentenza di condanna penale che non faccia stato nel giudizio promosso dall'INAIL in sede di regresso.

Ora, se è vero che  in relazione alla ripartizione dell’onere della prova in tali giudizi, il datore di lavoro, che aspira ad ottenere una pronuncia favorevole, deve provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell’evento, è altrettanto evidente, che la gravosità di tale onere è direttamente proporzionale al tempo intercorso tra la data dell’incidente ed il momento in cui si celebra il giudizio.

Ritenere, dunque, che l’azione di regresso, in ipotesi di sentenza di patteggiamento, sia sottoposta a termine di prescrizione e non di decadenza, significa anche ritenere conforme a giustizia il fatto che l’Istituto assicuratore abbia il potere di determinare, unilateralmente, la gravosità dell’onere della prova a carico della controparte: l’INAIL, infatti, interrompendo di volta in volta il decorso del termine, potrebbe dilazionare per un tempo indefinito quello stato di incertezza cui è sottoposto il datore di lavoro, in mancanza di un accertamento del fatto in sede penale.

La tesi sin qui esposta, è assolutamente conforme all’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui: “……se solo all'Istituto venisse riservata la possibilita' di conservare a lungo nel tempo le proprie ragioni mediante il ripetuto ricorso ad atti interruttivi, si avrebbe un'ingiustificata disparita' di trattamento rispetto all'infortunato o ai suoi aventi causa, la cui azione, ai sensi del V comma dell'art. 10, e' sottoposta ad un termine di decadenza nelle stesse ipotesi di sentenza penale di non doversi procedere” (così, Cass., sez. lav.,  5 ottobre 1992, n. 10890)

In senso del tutto analogo, V., anche, Cass., sez. un. 1997, n. 3288, nella cui motivazione si legge che nel caso di intervenuta sentenza di condanna, invece, “l’azione dell’INAIL è sottoposta a prescrizione, suscettibile di atti interruttivi, in quanto la dilazione non genera gli inconvenienti che il legislatore si è proposto di evitare con la previsione della decadenza per il caso della sentenza istruttoria, appunto perché la posizione del datore di lavoro (o dei suoi dipendenti) è già definita in punto di responsabilità penale accertata”.

In definitiva, non può revocarsi in dubbio che l’azione di regresso dell’INAIL è soggetta al termine decadenziale, in tutte le ipotesi in cui difetti l’accertamento della responsabilità penale del datore di lavoro, tra cui rientra, a pieno titolo, anche quella in cui il giudizio penale si sia concluso con una sentenza di patteggiamento ex art. 444 e ss., c.p.p.

Nè per pervenire a contrario avviso sarebbe possibile sostenere che la sentenza di patteggiamento “e’ assai più vicina ad una sentenza di condanna… che alle sentenze che hanno dichiarato il non doversi procedere…”.

Sul punto, infatti, si è già pronunziata la Suprema Corte affermando che l’equiparazione tra la sentenza di non doversi procedere e quella di patteggiamento, lungi dal trovare fondamento nell’eguaglianza di contenuto di tali tipologie di decisioni (la cui differenza risulta abbastanza evidente anche a chi non eccelle nella conoscenza del diritto) fa riferimento esclusivamente, al difetto di “accertamento” che accomuna entrambe.

E ciò, evidentemente, al solo e limitato fine di ricondurre la fattispecie oggetto del presente giudizio in una delle due ipotesi previste dall’art.  112, ultimo comma, del D.P.R. 30.06.1965, n. 1124,  delle quali la prima (caratterizzata dalla mancanza di un accertamento del fatto-reato da parte del giudice penale) prevede che l'azione di regresso dell'Inail soggiace al termine triennale di decadenza, che (insuscettibile d'interruzione) decorre dalla data di emissione della sentenza penale di non doversi procedere, la seconda, invece, (caratterizzata dall'esistenza di tale accertamento) che prevede un termine  triennale di prescrizione, decorrente dal giorno nel quale è divenuta irrevocabile la sentenza penale di condanna, per l’esperimento dell’azione di regresso.